venerdì 6 luglio 2012



ore 16.30


Sembra il primo giorno

Le telefonai e le proposi un appuntamento per il pomeriggio. Arrivò puntualissima, a me sembrò persino che corresse, ma forse, ripensandoci col senno di poi, e sono più di trent’anni che ogni tanto ripenso a quel pomeriggio, momento per momento, è una cosa che ci volli vedere io. Nonostante fosse ottobre c’erano un’aria frizzantina ed un cielo luminoso di primavera.
“Ciao amore, sembra il primo giorno, ti ricordi? Lo stesso cielo azzurro, la stessa brezza, e poi non eravamo molto lontani di qui”.
Camilla annuì. Ci abbracciammo e ci scambiammo un bacio leggero, senza passione né coinvolgimento, da parte sua, intendo. Cominciammo a camminare in silenzio; le strade della vecchia Roma erano deserte. Ci inoltrammo in un quartiere popolare in cui sembrava che il tempo si fosse fermato. Incontravamo sul nostro cammino fresche osterie col pergolato da cui uscivano frammenti di parole “ma che ti dormi? dovevi giocare il cavallo…”, parolacce e bestemmie di ogni tipo, ordini gridati a voce roca tra cui mi fece sorridere il classico “pòrtace ‘n altro litro”. In un altro momento mi sarebbe piaciuto sentire il rumore delle carte sul tavolo, il gorgoglio del vino nei bicchieri, il rumore del fiume, ma c’era qualcosa di strano, stavo per dire di inquietante. Sentivo il respiro di Camilla e mi sembrava diverso dal solito; nel contempo avevo paura che si sentisse il battito del mio cuore… Tra noi un silenzio pesante. Io non osavo parlare per evitare che capisse che l’avevo vista la mattina, ma lei…
“Camilla, lo sai come si chiama il ministro dei trasporti cinese?”
“No”
“Fur Gon Cin”
Sorriso tirato.
“E la puttana greca?”
“Dimmi”
“Mika Teladogratis”.
“Carina”.
“ E il giudice italiano più severo?”
“Questa la sapevo, ma non me la ricordo”.
“Massimo Della Pena.
“Ah, sì”.
Smisi perché mi accorsi che quelle battute suonavano false, creavano disagio a lei, ma anche a me. Camminammo in silenzio per altri dieci minuti. Ogni tanto io la abbracciavo o le prendevo la mano… non rifiutava il contatto, questo no… per un po’ passeggiavamo così, poi lei tossiva, o si metteva a posto i capelli, o si grattava il naso… e alla fine ogni motivo era buono per staccarsi da me.
Fu Camilla a rompere il silenzio.
“Sai una cosa, Claudio? Noi due abbiamo riso, scherzato, passeggiato, ci siamo baciati, abbiamo fatto l’amore…”
“Ed è stato bellissimo” la interruppi.
“Ed è stato bellissimo –ammise con un sorriso malinconico-, ma non abbiamo mai parlato. Non ci siamo mai confrontati su niente”.
“Camilla non ti capisco, non so cosa intendi dire… comunque non so come sia potuto capitare… in ogni caso abbiamo costruito qualcosa”
“Forse, Claudio, ma… -restò pensierosa un momento poi continuò a fatica, quasi con le lacrime agli occhi-  ma se abbiamo costruito qualcosa l’abbiamo perso”.
Nella mia mente era come se un proiettore diffondesse il film del nostro primo incontro: “Scusa, hai una sigaretta? io le mie le ho finite”. Era un’adolescente bionda, esile, dai grandi occhi blu. Come molte ragazze di quel tempo non portava un filo di trucco. Vestiva in maniera semplice, una Lacoste  verde attillatissima ed una gonna bianca. La guardai divertito, poi estrassi il pacchetto delle Muratti. Ce n’era rimasta una sola, ma pazienza. Gliela porsi. “Scusa la faccia di tolla -mi disse con un improvviso senso di disagio accendendosi la sigaretta ed aspirando con voluttà- ma ne avevo una voglia pazza. A proposito, io mi chiamo Camilla. Perché non ti siedi un momento?”.
“Piacere, Claudio” sussurrai. Lo specchio del bar mi rimandò la mia immagine: avevo un’aria sconvolta. “Quando capitano questi incontri sarebbe meglio essere ben pettinati” pensai con un soldo di ironia e due di rammarico…. Com’era lontano il casino di Roma per me che stavo vivendo una mattinata stupenda. Quanto a lei… non ci giurerei, ma avevo la netta sensazione di piacerle.
Ora invece eravamo sul punto di finire tutto ed io non riuscivo a capire la ragione. Chi lo avrebbe detto un mese fa? Due mesi fa? Tre mesi fa?
Feci per baciarla, ma Camilla mi fermò.
“No, Claudio, meglio di no”.
Mi sentivo un cretino, lì, con lei, fermo in mezzo ad una strada.
“Camilla non è vero –le dissi –non può essere vero che la nostra storia finisce”.
“Claudio, ti prego, non complicare le cose… tanto… non serve a niente”.
Avrei avuto voglia di urlare, di picchiare pugni contro il muro, di pregarla di rimanere, ma mi resi conto che sarebbe stato del tutto inutile.
Mi bloccai e le porsi la mano con un gesto da adulto. Come mi sarebbe successo spesso nei momenti drammatici della mia vita cercavo rifugio in una canzone. Come faceva quella canzone che cantava sempre mia zia quando ero bambino? Cercai di ritrovare le parole nella memoria, perché sentivo vagamente che chi l’autore le aveva scritte per me in quel momento.

                                   “Abbiamo sfidato l’amore quasi per gioco
                                           ed ora fingiam di lasciarci soltanto per poco (…)
                                           con una stretta di mano
                                           da buoni amici sinceri
                                           ci sorridiamo per dir “arrivederci”.

Se ne andò col suo passo leggero, solo leggermente più curvo del solito. Fui sul punto di richiamarla indietro, ma poi mi dissi  “non serve a niente”.
Da quel giorno sono passati più di sei lustri, tante gioie e tanti dolori hanno cambiato la mia vita, ma ogni tanto mi accorgo che sto pensando a questo piccolo grande amore. Recentemente ne ho parlato per email al Gatto e lui per tutta risposta mi ha mandato una frase di uno scrittore francese che mi sembra scritta per questi miei sentimenti: “Tante persone ho visto morire nella mia vita, ma la morte per cui più ho sofferto è quella del ragazzo che sono stato”.
Roma è grande, ma è pur sempre una città, mica un continente; ci sono luoghi in cui prima o poi si va tutti e tutti ci si ritrova: piazza di Spagna, l’Olimpico, stazione Termini, Villa Borghese, il Pincio, il Circo Massimo. Beh… non mi è mai più capitato di incontrare Camilla.