venerdì 22 giugno 2012

da QUESTO PICCOLO GRANDE AMORE: PORTA PORTESE


Capitolo 6


Ottobre

Domenica  ore 9

Porta Portese

La prima licenza arrivò inaspettata una quarantina di giorni dopo il mio arrivo in caserma. Approfittai di un passaggio offertomi dal padre di un commilitone ed una domenica mattina verso le otto e trenta arrivai a Roma. Mi accorsi con mio grande disappunto che in questo mese ero dimagrito moltissimo: non mangiavo quasi nulla, ero sempre teso e nervoso… avevo ripreso a fumare come un turco… avrò perso sette o otto chili, ma non era quello il problema: mi resi conto immediatamente che tutti i miei pantaloni borghesi sarebbero stati esageratamente larghi. Presentarmi  a Camilla in divisa manco a pensarci… i negozi erano tutti chiusi… non so come mi venne la malaugurata idea di farmi lasciare al mercatino dell’usato di Porta Portese. Nonostante fosse mattina presto il mercato era già sveglio, le bancarelle erano strapiene di roba, la gente cominciava ad affollarsi. Provai una sensazione strana, un misto di tenerezza e nostalgia ripensando alla mia infanzia, a certe mattine di qualche anno fa quando a Porta Portese ci venivo con mio padre… e questo ricordo si fece più vivo quando casualmente  passai davanti al banco della signora Lella, che vendeva ritratti e foto di Papa Giovanni XXIII di tutte le forme e dimensioni. Papa Giovanni… mi sembrava ieri la sera che aveva fatto quel discorso in TV che tanto mi aveva colpito “stasera tornando a casa troverete i vostri bambini… date loro una carezza e dite questa è la carezza del papa”… quelle parole mi avevano emozionato… quando mai un papa, o comunque una persona importante di quelle che parlano dallo schermo della televisione si era occupato dei bambini?…avevo dieci anni quella sera… ed ora ne avevo il doppio… forse per la prima volta nella mia vita elaborai nella mia mente quel concetto tanto banale e scontato quanto vero: “il tempo vola”. Salutai la signora Lella. Che tipa! A me a scuola la storia non è mai piaciuta, l’ho sempre odiata, nomi, date, battaglie, sai quanto me ne fotteva a me di quanti erano gli efori di Sparta prima della riforma di Licurgo e quanti dopo… ma quando la signora Lella cominciava a parlare delle cose che aveva visto lei nella sua lunga vita: Vittorio Emanuele III ed Elena del Montenegro sottobraccio che parevano l’articolo “il”… Hitler e Mussolini sui Fori Imperiali… il papa in lacrime a San Lorenzo dopo il bombardamento… il rastrellamento nel ghetto… il comizio di Togliatti a San Giovanni in Laterano due giorni prima delle elezioni del ’48… e poi Totò, la Magnani, Fellini, Sordi, Fabrizi…ti affascinava e non saresti andato più via. Sulle sue labbra la storia e la cronaca diventavano vita vissuta. Inoltre c’era sempre qualcuno che si divertiva a stuzzicarla:
“A Lella, che cell'avete voi n'omo?
“Ma lassame perde, faccia da trasteverino.”
“A Lella ve piaciono i capelloni?”
“E comme no… mo’ pure l’ommini se travesteno da donna… capelli lunghi, collane… camicie a fiori, ma annate a scònderve”
“A Lella, ma voi per chi votate?”
“Ma nun me parlate de politica, che so’ tutti fii de mignotta, tutti dar primo all’urtimo… Venissero qui a lavorà come li cristiani, capirebbero tante cose”. Poi si interrompeva bruscamente e cominciava a gridare con la sua voce stentorea nonostante l’età: “ma ndo a trovate roba mejo de Porta Portese? Manco a Parigi se trova roba bella come da noi”. Avanzai a fatica sgomitando tra la gente che andava in giro un po’ come le oche, mi fermai un attimo davanti ad un banco di roba chiaramente rubata… c’erano pezzi di macchina, spade antiche e moderne, quadri di tutte le fatture (con nettissima prevalenza di paesaggi montani e lacustri in doppia versione estiva ed invernale), continuai a camminare guardando la merce esposta. Tra Radiomarelli d’epoca, dischi a settantotto giri, cesti di vimini e ninnoli che cambiavano di colore a seconda del tempo, c’era in bella vista la foto di una biondina con le tette in fuori che una didascalia pretendeva essere Brigitte Bardot, ma bastava un’occhiata per capire che se quella era la Bardot io ero un tirannosauro.
Figurine Liebig, pezzi di ricambio originali Guzzi, Ducati e Gilera,  bambole di pezza e di ceramica, ferri da stiro col contenitore per le braci, macinacaffè in legno, libri per ragazzi della Scala d’Oro, dell’Aristea e della Salani, manuali della Hoepli e Bignamini usati da generazioni di ginnasiali, l’Enciclopedia Italiana quasi completa, bigiotteria da due soldi, legumi secchi e spartiti d’opera, poi finalmente una bancarella di abiti usati.
Sollevai un paio di jeans sporchi e sdruciti (oggi sarebbero all’ultima moda, ma allora nessuno avrebbe avuto il coraggio di girare con pantaloni bucati, scuciti o anche solo lisi).
“Settemila” disse il ragazzo dietro il banco.
“Settemila lire sta ciofeca? Ma lo vedi quanto so’ sporchi e bucati?” dissi io.
“A lorbrùmmel, ma ndo te credi de esse: in una butic de via Veneto o al mercatino dell’usato? e poi… sei capace di leggere o no?”
“Certo che so leggere: “CALZONI USATI”, sì, ma io intendevo usati da un cristiano,  porca zozza, questi li ha usati un trucido, un coatto, un…”
Non terminai la frase perché mi parve di udire in lontananza l’inconfondibile risata argentina di Camilla.
Mi voltai di scatto. Avevo il sole negli occhi, ma in controluce vedevo avanzare Camilla e suo fratello Lele. “Che teneri –pensai- fratello e sorella mano nella mano, mai vista una roba del genere, vabbè che sono figlio unico…”. Ma mano a mano che si avvicinavano realizzai che lei sì era Camilla, ma l’altro in comune con Lele aveva solo il metro e ottantasette di altezza: Lele sto cazzo!!!: si trattava di un ragazzone sui ventidue – ventitré anni:  moro, atletico, abbronzato; maglioncino di cachemire color salmone, pantaloni di velluto, calzini inglesi, mocassini di camoscio…
“Hai capito la stronza? –pensai-  altro che fratello… io sto a fare il soldato e lei si è andata a mettere con un pariolino… e che bel ragazzo oltretutto… e chissà da quanto lo conosce… pollo io che ci sono cascato”.
Istintivamente mi nascosi dietro il camper che fungeva da punto di ristoro e li vidi passare senza che si accorgessero di me, poi me ne andai di corsa dalla parte opposta.
Mi parve di sentire la voce del ragazzo che mi urlava dietro  “a regà, ma allora sti carzoni li voj o nun li voj?” ma non ne sono certo.
Da un vecchio disco a settantotto giri mi raggiunse invece, e di questo ne sono certissimo la voce di Claudio Villa

                                    “Fiore de sale…
                                      l’amore fa penà ma nun se more…
                                     d’amore nun se more, ma se sta male”.





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