venerdì 25 maggio 2012


Capitolo 4

Agosto

Quel giorno

Di ritorno da Marina di Camerota Camilla partì per la Spagna con i suoi ed io, per evitare la tristezza di una Roma ferragostana calda, deserta e deprimente, decisi di andare qualche giorno in un paese alla periferia nord di Milano a trovare un mio amico che non vedevo da tempo, un neolaureato in lettere di tre o quattro anni più grande di me che tutti chiamavano il Gatto, forse perché era un fanatico dei felini, forse per la sua assoluta incapacità di eseguire qualunque esercizio ginnico o più probabilmente perché era (ed è tuttora) curioso come un gatto. La prima cosa che mi colpì fu la bruttezza del posto: un quartiere dormitorio fatto di casermoni popolari, che soffocavano quello che era il vero paese di una volta, ancora riconoscibile in alcune corti che denunciavano la loro origine agricola, in un paio di ville signorili, in un cotonificio abbandonato, nei campi bruciacchiati dal sole. Per fortuna ad un certo punto del paese c’era un polmone verde, un bel parchetto con tanti alberi e tanti giochi per bambini, altrimenti avrei potuto pensare di trovarmi nel terzo mondo.“E poi parlano male delle borgate romane” mi dissi. Il Gatto lo trovai in forma, molto meglio dell’ultima volta in cui ci eravamo incontrati (allora era innamorato senza speranza di una ragazzina delle magistrali, una tipa  dai capelli rossi che gli aveva sempre detto no, ora invece era innamorato di una studentessa di fisica, ma contraccambiato e felice, inoltre si era appena laureato ed aveva schivato il militare –che culo, pensare che a me potevano chiamarmi da un momento all’altro!!!- per una serie di foruncoletti spuntati sulla schiena proprio nel punto preciso dove i soldati poggiano lo zaino, come disse il dermatologo militare, ma il motivo vero era un altro: il mio amico era obiettore di coscienza ed il Parlamento aveva da poco approvato la legge Marcora, ma si era dimenticato di emanare il regolamento applicativo; quindi nessuno sapeva dove mettere gli obiettori: non più in galera, la legge lo vietava, ma certo non nell’esercito, mancando una regolamentazione. Gli chiesi di presentarmi la sua ragazza (le foto appese in camera che la ritraevano coi capelli al vento, in copricostume a fiori affacciata ad una finestra del tempio di Giove Anxur o in bikini pervinca sulla spiaggia di Terracina promettevano bene…), ma il Gatto scosse la testa: “eh, magari…mica sta qui, abita a Legnano e poi in questi giorni è in clausura… sta preparando un esame universitario e guai a chi la disturba… magari uno di questi giorni l’andiamo a trovare”. Ho detto che l’ho trovato bene, ma in realtà soffriva di gastrite (dovuta a mio parere ad un’alimentazione sbagliata: dolci, salumi e caffè a go go, pessima abitudine che non ha abbandonato ancora oggi che è vecchio, pur soffrendo di quasi tutte le malattie di questo mondo). Mi chiese se lo accompagnavo dal dottore che stava dall’altra parte del paese, oltre la ferrovia ed io accettai, ma quando mi trovai davanti allo studio medico, con la sala d’aspetto collocata in un negozio stretto, angusto, buio cambiai idea e gli chiesi se lì non ci fosse qualcosa di turistico da visitare. Sulle prime la prese molto male: “Claudio, mi stai prendendo per il culo? che cazzo vuoi che ci sia di turistico in questo paese di merda? , apri gli occhi e guarda tu stesso”, poi cambiò tono “beh in effetti, ora che ci penso, qui è pieno di ricordi manzoniani… se vai diritto c’è il cimitero con la tomba di tutti i familiari di Manzoni, tutti tranne lui che, contro la sua volontà, fu sepolto nel Famedio del Monumentale di Milano… là in fondo –vedi quegli alberi?- c’è la villa dove il poeta risiedeva sei mesi l’anno, dentro è bellissima, io ci sono stato tante volte, ma ora non si può più visitare; l’ha comprata una contessa siciliana e l’ha chiusa al pubblico… beh lì a sinistra c’è una chiesetta che non è male… era una vecchia cappella di campagna che il Manzoni ha fatto ristrutturare a sue spese”.
Piuttosto che entrare in quell’orrida sala d’aspetto optai per la chiesetta del Manzoni. 
Era, appunto, una chiesetta di campagna, raccolta, silenziosa, freschissima. La prima cosa che mi venne in mente fu che non mettevo piede in chiesa almeno da cinque anni, da quando si era sposata mia cugina. “Eh sì, caro Dio –pensai- non è che io e te si vada molto d’accordo. Però stasera mi sento di pregarti: vorrei che tu benedicessi questo amore... Voglio… voglio sposare Camilla. Beh, magari non qui, ma in una chiesa come questa… e tenerla sempre con me, nel bene e nel male, nei giorni lieti e nei giorni tristi, con tutto l’amore che posso.


venerdì 18 maggio 2012


Capitolo 3


Luglio


La prima volta

Quando Camilla andò in vacanza con i suoi a Marina di Camerota mi feci prestare da un vicino di casa una canadese ed andai nello stesso campeggio in cui si trovava lei. Il “Camping delle Sirene” era un posto tranquillo, fresco, il ristorante non era granché per quanto riguarda i secondi piatti, ma le pizze erano passabili, la parmigiana di melanzane migliore di quella servita solitamente nei ristoranti del sud ed in fin della fiera ci si mangiava una pasta alle vongole fantastica; un posto di famigliole, pensato più per bungalows in legno e camper che per le tende, ma riuscii ugualmente a trovare una bella postazione ombreggiata. I genitori di Camilla sulle prime avevano fatto un po’ di storie, ma alla fine mi avevano accettato volentieri, stavo simpatico a loro ed avevo fatto amicizia anche con Lele, il fratello di Camilla un ragazzone alto, biondo con gli occhi azzurri particolarmente benvisto dalle ragazzine, quindi avevamo formato una compagnia affiatata e ci divertivamo come matti a nuotare, a pescare i ricci, a tuffarci da uno scoglio per poi raggiungere a nuoto una grottina,  ad uscire in pedalo, a partecipare, solo per il gusto di boicottarli goliardicamente, ai giochi organizzati dall’animazione: risveglio muscolare, gioco aperitivo, aqua-gym, balli latino-americani ecc. Quasi ogni sera scendevamo in paese, ci facevamo una pizza (beh ogni tanto una cenetta coi fiocchi alla “Cantina del Marchese”), poi Camilla ed io ce ne andavamo in spiaggia e gli altri a prendere un gelato in piazzetta s. Domenico o a ballare al “Ciclope”. Una sera tutti assieme prendemmo un vecchio peschereccio sul quale ci mostrarono come si pescava in passato alla luce delle lampare, poi ci sbarcarono a porto Infreschi che era l’una ed al lume della luna ci arrostirono tutto il pesce pescato e lo mangiammo in grande quantità accompagnato da enormi fette di anguria e dal forte vino bianco del sud. Non avevo mai visto in vita mia un posto tanto bello, romantico e pittoresco come porto Infreschi, una spiaggetta raccolta, protetta da alte montagne, l’acqua cristallina, i sassoni bianchi… decidemmo che ci saremmo tornati la sera dopo. Affittai una barca (da ragazzo avevo imparato a remare sul Tevere, quindi il placido Tirreno non mi faceva certo paura…) ci fermammo per un po’a Cala Luna dove un gruppo di francesi cantava Brassens attorno ad un falò, poi raggiungemmo porto Infreschi. Quella notte, incredibilmente, non c’era nessuno. Forse, chissà, al Bolivar, l’unico cinema del paese c’era un film di grande richiamo, forse al “Ciclope” si esibiva una star della musica leggera… ma a noi piacque pensare che un posto così  fosse “prenotato” per noi e per il nostro amore.
Sulla barca c’era un materassino e lo stendemmo a terra sui sassi. La luna piena si rifletteva sul viso di Camilla… il mare sciabordava dolcemente, sembrava che cantasse una canzone solo per noi.
Ci abbracciammo. Camilla era tesa, ed anch’io lo ero, anche se cercavo di non darlo a vedere. Sentivo la sua bocca sulla mia, le mani dapprima esitanti, poi sempre più forti che mi stringevano e mi accarezzavano da tutte le parti. Altre volte eravamo rimasti da soli in spiaggia, a giocare, a coccolarci, a baciarci, ma stavolta entrambi sentivamo che non sarebbe stata la stessa cosa. Un muro di seta mi divideva dal possederla completamente. Quando capì la mia intenzione Camilla sorrise ed il suo corpo aderì completamente al mio. Fu un’esperienza dolcissima, il viso delicato di Camilla, il suo seno bianchissimo inargentato dalla luna, il suo respiro, la sua voce roca che gridava il mio nome… La sentivo indifesa… per un momento pensai che avrei anche potuto morire sui suoi fianchi, ma non me ne sarebbe importato nulla. Era troppo bello, troppo intenso, era qualcosa di indescrivibile. Sia per lei sia per me era la prima volta.

venerdì 11 maggio 2012


Mia libertà


La sera dopo, all’ora di cena, ha telefonato Aldo. Si è scusato a nome di tutti per il loro comportamento del sabato, ha detto che si sono accorti di aver esagerato… poi ha aggiunto: “però anche te, cacchio…”
“Io cosa?”
“No, niente”. E’ stato un attimo in silenzio poi ha aggiunto “Claudio, vorrei farti sentire una canzone che mi prende un casino… è forte, davvero”. Ha armeggiato un po’ col giradischi ed ha messo una canzone di Franco Califano che mi ha fatto venire i brividi.
                                                        L' urtimo amico va via,
                                                       
domani se va a sposà,
                                                       
se gioca la libertà pure lui.
                                                        
Er vecchio gruppo ‘ndò stà,
                                                       
me li so' persi così
                                                       
se sò scordati de me,
                                                       
Tanto amici e poi... tiè!
                                                       
Ogni cosa se ne và,
                                                       
finisce er ciclo de 'n'età,
                                                       
domani chiude er bar in fondo a 'na via.

La notte questi versi mi ronzavano nelle orecchie al punto che non riuscivo a prendere sonno. Beh io mica mi vado a sposare -pensavo-, ma il fatto di essermi messo con Camilla… solo adesso me ne sto rendendo conto… mi fa perdere un po’ della mia libertà. Mortacci!  La libertà!! La cosa a cui tengo di più in assoluto!!!
In effetti fin da ragazzino ho sempre anelato alla libertà, la mangiavo col pane la libertà… alle medie ero un ragazzino ingenuo e sprovveduto, credevo che tutti mi volessero bene… e vivevo di libertà… cinema… amici… scorribande. Vicine di casa con quel modo di fare ambiguo, un po’ amicone e un po’ nave scuola… luoghi comuni…frasi fatte… ragazze che volevano appiccicarsi a me, mentre io sognavo pizze e corse in motorino…. Ecco, da giovane, ogni volta che vedevo qualcuno o qualcosa mettere a rischio la mia libertà io mi sono sempre chiuso a riccio… ed ora, di colpo la mia libertà si riduceva… sabato con Camilla, domenica con Camilla, magari qualche sera con Camilla… per carità era una cosa stupenda… ma, per dire una cazzata,  se una domenica mi fosse venuto voglia di andare a vedere la Roma, mica avrei potuto portarci che lei odiava il calcio. Quella notte compresi che tra me e la libertà c’era un vetro. Non avrei mai permesso a nessuno di mettercelo, né ai miei genitori né alla scuola… e sono andato a mettermelo da solo. Avevo vent’anni e pur senza conoscerle rifiutavo d’istinto tante cose del mondo adulto; provo a fare un elenco, ma so già che senz’altro risulterà incompleto: i debiti, la pubblicità, le puttane, il moralismo, i partiti politici, le trasmissioni TV a puntate, quelle che, come sirene, ti invitavano ogni giorno oppure ogni settimana alla stessa ora… sentivo confusamente che tutte queste cose che sto citando alla rinfusa avevano un denominatore comune che me le rendeva invise, odiose, ripugnanti, ma non riuscivo a definirlo. Solo oggi che sono carico di rughe e di capelli bianchi (stavo per scrivere di saggezza, ma mi sembra poco saggio anche solo pensarlo nonché scriverlo…) ho capito quale fosse questo denominatore comune: erano tutte persone cose o situazioni che avrebbero limitato la mia libertà. Ma quella sera, nel mio letto in cui non riuscivo a prendere sonno, mi posi una sola domanda: sto facendo una scelta intelligente o una cazzata a buttarmi a capofitto in questa storia con Camilla? Boh. “The answer my friend, is blowin’ in the wind, the answer is blowin’ in the wind” come diceva il grande Bob Dylan. Quella notte però, come altre volte nella mia vita, ebbi la netta percezione che stavo varcando una soglia. Come la prima volta che mi sono allontanato da casa… come quando ho acceso la prima sigaretta… come la prima volta che ho pensato “io quella lì me la farei”… come la prima volta che un tipo in strada mi ha dato del lei…come la prima volta che mi hanno fermato i carabinieri. C’è sempre una prima volta per tutto.



venerdì 4 maggio 2012


SECONDO FLASHBACK (Claudio ricorda)

Oh Merilù

Ma guarda un po’ che serata. Scemo io che li ho cercati. Che fossero degli stronzi l’ho sempre sospettato, ma non fino a questo punto. E pensare che fino a poco tempo fa questi amici erano tutta la mia vita. E quando eravamo regazzini allora? Non parliamone. Kiko, Aldo e Gigi con me avrebbero potuto diventare i nuovi Beatles… sarebbe bastato un po’ di fortuna, perché eravamo dei mostri, ma soprattutto sarebbe bastato che gli altri tre non avessero sempre in mente quella sciacquapalle della Merilù… Che tempi, vacca rana. Sembra ieri, ma sono già passati sei anni. Ricordo ancora l’emozione quando comprammo la prima chitarra: la mia era una Kit di terza mano. Giorni e giorni sulla “Bambolina che fa no no no” e sulla “Canzone del sole” di Battisti (ebbene sì, tutti i giovani chitarristi degli anni Sessanta hanno cominciato con questi quattro accordi maggiori: La… Mi… Re… Mi… a proposito devo scrivere a quel mio amico di Milano che mi ha mandato la sua ultima canzone che si chiama “Ferragosto” per dirgli che fa cagare), poi via col grande beat. Avevamo trovato una cantina a seimila lire al mese… un amplificatore quasi inesistente, ma ci davamo dentro con il repertorio dei Beatles e dei Rolling Stones, e alla fine (ce l’aveva insegnata il papà di Kiko un giorno che era a casa dal lavoro) si terminava sempre con “Rock around the clock” suonata in Re (Perché in Re e non in Mi come Dio comanda? Ragioni artistiche? Ma non diciamo cazzate… semplicemente perché io mi incasinavo con le dita e non riuscivo a fare il Si7). Mia mamma preparava il supplì, Gigi portava una sigaretta fregata a suo padre (e ce la fumavamo in tre, perché grazie al cielo Aldo non fumava), e per tre ore sognavamo il momento in cui ci saremmo esibiti a Woodstock o all’isola di Wight. Ma quando il clima si faceva magico, quando la musica cominciava a decollare, quando il gioco si faceva duro ed i duri avrebbero potuto cominciare a giocare c’era sempre qualcuno che diceva “scusate, interrompiamo… non sto bene” ed usciva fuori solo per vedere se affacciata al balcone ci fosse quella stronzissima della Merilù. Ci ha divisi. E’ stata la nostra Yoko Ono… Beh, sinceramente mica è stata lei l’unico ostacolo… mettiamoci anche il padrone che voleva i soldi dell’affitto (e chi ce li aveva?) mettiamoci la vecchia che minacciava sempre di chiamare i carabinieri… Eppure eravamo forti. “Come cazzo ci chiamiamo?” ci eravamo chiesti dal primo giorno.  Uno proponeva “The musical beat and rock sound system”, un altro “i figli del diavolo”, Aldo che faceva il classico propose “Fervet opus”, o, come scrissi io sul foglietto su cui raccoglievamo tutte le proposte, “Ferve Topus” (non ho mai saputo che cazzo volesse dire…), poi grazie al cielo passò la mia proposta di chiamarci “i Sandokan”, un nome gagliardo trovato sull’ “Enciclopedia dei Ragazzi” . Altra questione mica da ridere per dei beatniks come noi che avevamo nel sangue il “Liverpool sound”: dove troviamo i soldi per la batteria? Non li trovammo da nessuna parte ed infatti usavamo due fustini del Dixan... Ma eravamo forti, un vero mito saremmo potuti diventare… tanto che una sera ci chiamarono a suonare al Fox… Non dimenticherò mai quanto spendemmo per noleggiare gli abiti adatti… non dimenticherò mai le ore ed ore di prove per copiare alla perfezione la mossa dei Rokes in “Bisogna saper perdere”… ma non dimenticherò mai neppure che alla quarta o quinta canzone qualcuno gridò “a coatti… se manco sapete suonare non è meglio che vi togliete dai coglioni?… ma ve ne volete annà o ve dobbiamo cacciare a pedate nel culo?”. Ci guardammo in faccia, attaccammo “Rock around the clock” (rigorosamente in Re, nonostante Kiko mi supplicasse di farla in Mi) e poi via… senza manco il coraggio di andare a ritirare le venticinquemila lire che ci avevano promesso. Io avevo le lacrime agli occhi e continuai per tutta la sera a dire, ragazzi non ci siamo esercitati abbastanza, alla musica dobbiamo dedicare più tempo e tutti a trovare scuse… io ho judo… io devo studiare… io abito lontano… balle… tutti e tre si catapultavano come deficienti sotto il balcone della Merilù. La cosa mi scocciava un casino, anche perché, ormai posso ammetterlo tranquillamente,  avrei voluto esserci io sotto quel balcone. Anche a me piaceva da pazzi. A noi ci ha rovinato la Merilù. E’ stata la nostra Yoko Ono. Ma sono stati anni stupendi. E’ stata un’amicizia stupenda. Stasera mi hanno deluso.