venerdì 27 aprile 2012


Capitolo 2

Aprile


Che begli amici

Passarono tre settimane di passeggiate, baci, risate, gelati, ma né io né Camilla parlavamo di “metterci assieme”. Forse la parola ci faceva paura; io (ma quante volte avrò ancora modo di dirlo raccontando di quegli indimenticabili sette mesi?) non mi sentivo sicuro… e lei forse aspettava impaziente che io mi sentissi sicuro. Quando Camilla mi disse che avrebbe dovuto trascorrere un week end in Umbria con i genitori, per sistemare alcune questioni familiari, per un attimo mi sentii mancare il terreno sotto i piedi, poi mi dissi che per anni avevo passato tutti i sabato sera al bar con gli amici e così avrei fatto ancora per una volta.
Mentre mi avvicinavo al locale, con la camicia bianca fresca di bucato, i jeans di marca ed i mocassini a punta, pensavo a come mi avrebbero accolto i miei amici. Un semplice ed asciutto “ciao, toh chi si rivede?” o un esplosione di gioia, un applauso, un urlo da stadio?
Il primo a vedermi da lontano fu Marco detto Cristo in bici, perché era stato per un paio d’anni in seminario prima di fuggirne inorridito, ma gli era rimasta l’abitudine di intonare col suo vocione ad ogni piè sospinto: “Christus vincit, Christus regnat, Christus Christus imperat”. E noi a fargli il coro, ma a modo nostro: “Cristo in bici, Cristo frena, Cristo Cristo è lì in terra”. Era davanti al bar a parlare con suo padre che aveva appena giocato la schedina del Totocalcio e stava tornano a casa, conoscendolo penso che volesse scucirgli un deca… ma quando mi vide si congedò dal padre, entrò nel locale… ed uscirono in nove!!!
Gigi era paonazzo per l’emozione e cominciò a gridare “A Cristo in bici,  ma questo non è Claudio… questa è la pecorella smarrita di cui parlate voi preti”.
Intanto Paolino “puzzetta” e Michele “flipparolo” urlavano all’orecchio di Mattia “dai che lo circondiamo, ragazzi c’è da divertirsi con la pecorella smarrita”
“E dàgli con ‘sta pecorella smarrita… -dissi tra me con una smorfia- questa non mi piace”.
Due o tre del gruppo facevano il gesto di inchinarsi e prostrarsi come nei film sul medioevo
Kiko invece avanzava verso di me: “ma che onore, ragazzi, sua eccellenza si ripresenta all’umile compagnia dopo un lungo mese… ma dov’è il tappeto rosso? Dove la banda? Bentornata la nostra pecorella smarrita”.
Mi maledissi per la mia idea di passare la serata al bar. Se solo li avessi visti ed avessi capito le loro intenzioni sarei sgattaiolato via… ero riuscito a defilarmi da una manifestazione, possibile che non riuscissi a defilarmi da una decina di stronzetti?
Ma Gigi mi prese per le spalle e mi spinse al centro del gruppo.
“Possiamo avere l’onore di conoscere il motivo della vostra lunga assenza o nobile signore?”
“Beh ragazzi, visto che non trovo lavoro ho deciso che a settembre mi iscrivo a lingue…”
Mi accorsi di aver detto una parola veramente infelice e che si poteva prestare a mille battutacce, mi sarei sprangato da solo, ma ormai era inutile piangere sul latte versato.
“Ah le lingue, capisco” fece Puzzetta mimando con la lingua un bacio erotico come le puttane nel film “Roma” di Fellini.
“Cazzo ragazzi lasciatemi parlare… mi iscrivo a lingue, ma io conosco solo l’inglese, quindi mi sono messo a studiare…”
“Con Camilla?” interruppe Aldo che fino a quel momento era rimasto silenzioso.
Ormai avevo imboccato una corsia e non potevo uscirne. “Sì con Camilla, proprio. Mi aiuta in francese.”
“A Clà, facci capire -intervenne Cristo in bici- ma con Camilla che ci studi oltre al francese del french kiss, del rendez vous e del pied à terre…? Anatomia? Scopologia? Scienza del letto?”
“Cazzo, ma saranno cazzi miei?”
“Ragazzi, se si scalda vuol dire che la cosa è grossa. Sotto con le domande, a chi tocca?” infierì Andrea.
“Ragazzi ci conosciamo da anni, a voi non ho mai mentito. A me di Camilla non me ne frega niente”.
“Sì, ma te la sei fatta o no?” questo era Mattia, il brufoloso borgataro capace solo di taroccare motorini e sbavare sugli amori degli altri.
Memore della scenata in piazza di Spagna evitai di rispondere.
“Allora?” fece Aldo prendendomi per un braccio.
“Allora niente. E’ una rompicoglioni… ho deciso che ci sto assieme un po’ per divertirmi e farmi quattro risate… anche te Andrea quando hai preso la patente ti sei preso una cinquecento scassata per imparare a fare le manovre, no? Poi il giorno che rompe le invento una bugia, la prima che mi viene in mente, tanto è così scema che ci crede, e la mando via.
Ma Cristo in bici finse di non aver sentito e continuò imitando con la voce il cardinale vicario.
“E proprio tu, Claudio, il più fedele al sacro vincolo del gruppo… chi avrebbe mai pensato che proprio tu avresti per primo abbandonato il nostro sodalizio?”
“Sai che dispiacere… una congrega di stronzi ecco cosa siete”.
“No giovane Claudio, novello Romeo, novello Tristano, novello checazzonesò… non devi provare dispiacere per questa tua dipartita che farà di te uno sposo amoroso e felice… bacetti… confetti… bimbetti…”
E tutti ad intonare sull’aria della marcia nuziale

                             “Con tanto amor/ a questo altar
                               Claudio e Camilla si vanno a sposar…
                               Chissà perché/ chissa perché
                               forse Camilla aspetta un bebé”

“Oh sentite… Andate a fare in culo. Ma, dico, l’idea di farvi i cazzi vostri proprio non vi passa manco per la mente?”
“Se ti scaldi vuol dire che sei cotto davvero” infieriva Andrea.
“Cotto io? Ma siete scemi?”
“Cotto marcio. La piccola ti ha fatto un buco nel cuore” aggiungeva Aldo.
“Il buco …” stavo per dirne una grossa, ma mi fermai in tempo.
Cristo in bici riprese il suo tono officiante. “Preghiamo per la pecorella smarrita Claudio che non ha più bisogno dei suoi amici, ma solo del suo grande amore. Basteranno le nostre preghiere, unite al bel corpo di Camilla…”
Non volli sentire altro, li strattonai e me ne andai gridando con quanto fiato avevo in gola “Andate vaffanculo!!!  Tutti!!! Dal primo all’ultimo!!!”.
Li sentii di lontano che intonavano sghignazzando: “Cristo in bici… Cristo frena…”
Tornai a casa che non erano ancora le dieci. Dissi a mia madre che avevo mal di testa e mi infilai a letto.
Due giorni dopo chiesi a Camilla di metterci assieme. Mi strinse forte e mi baciò a lungo senza parlare.






venerdì 20 aprile 2012

Da Questo piccolo grande amore: CON TUTTO L'AMORE CHE POSSO



mercoledì


Con tutto l’amore che posso

A quei tempi del calcio non me ne fregava niente, ma l’idea che i miei fossero andati con un treno speciale della ditta dove lavorava mio padre a Graz a vedere la Roma in coppa Uefa mi aveva dato un senso di felicità inaudito. Telefonai a Camilla e scoprii con incredulità che anche i suoi e suo fratello erano andati alla partita.
“Allora stasera siamo soli… vengo da te?”
“Sì bravo, così domani i vicini lo dicono ai miei e mio padre mi spara”
“Ti direi di venire da me, ma ho una portiera che non si fa mai i cazzi suoi”
Ci accordammo per farci una pizza in centro e poi due passi sul lungotevere.
Il tramonto era di una bellezza da togliere il respiro. Mi venne in mente uno dei pochissimi frammenti di letture scolastiche che ti entrano nella pelle e ci rimangono per tutta la vita. Una volta in quinta il professore di italiano ci aveva letto l’inizio di un romanzo. Non chiedetemi titolo ed autore perché non me li ricordo. Una palla micidiale: un tipo che se la tirava da matti, principe, spadaccino e poeta aveva avuto una relazione con una mezza baldracca, tale Elena Muti (anche se il giorno dell’interrogazione avrei fatto ridere i polli chiamandola Ornella), poi si erano piantati, erano passati due anni e lui l’aveva invitata di nuovo a casa sua e fremeva nell’attesa “e se Elena non venisse… ma verrà… eccola è lei… non è lei… e preparava il tè… e il camino… e naturalmente il letto… e ne ricordava il viso… e la voce.. e il passo… mai letta una menata più pallosa, tutta la classe che sbadigliava e si lamentava… eppure al momento, quando il professore aveva cominciato a leggere, le prime due righe mi avevano affascinato, ero rimasto estasiato come raramente mi accadeva. Me le ero trascritte, me le  rileggevo spesso e me le ripetevo a memoria:  “L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma”. Quelle parole mi avevano emozionato, come sempre mi emoziona un tramonto romano. Ed eccoci qui questa sera a veder tramontare il sole dietro i colli… Il vento ci soffia in faccia; la luce del tramonto colora magicamente tutto il paesaggio… io all’improvviso, come in un film, mi metto a gridare: “Camillaaaaaaaa” e lei di rimando: “Claudioooooooooooo” .
Ed io di nuovo: “Camillaaaaaaaa” e lei subito: “Claudioooooooooooo” .
Ci fosse un albero o un muro vi incideremmo il cuore trafitto e le nostre iniziali.
Io dico “Camilla, ma tu fai sul serio o per te è un gioco?”
C’è un momento di silenzio. So che dovrei tacere i due dettagli che sto per dire; sono vecchio ormai e so cosa “crea un clima” e cosa “lo distrugge”. Ma ogni volta che ci penso (e ci ho pensato tante volte a questo che è stato uno dei momenti più belli di tutta la mia vita), non riesco a censurare questi due dettagli. Allora sfidando impassibile la smorfia di disgusto del lettore romantico, continuo.
Camilla si mette a fare delle facce buffissime, come quelle di certi cartoni animati… io mi sto scaccolando… a un certo punto una fisarmonica in lontananza attacca “Lara’s theme” . Prendo Camilla tra le braccia e la faccio ballare su quest’aria di valzer. Senza accorgerci inciampiamo in un bacio. Lungo, profondo, appassionato.
Non dico altro. Come hanno detto mille volte i poeti ci sono sensazioni che è bellissimo vivere quanto inutile tentare di descrivere. C’è una frase banale e risaputa, ma efficacissima per fotografare quello che provai in quel momento: “troppo bello per essere vero”. Anche l’aria della sera divenne magica, come se Camilla ci avesse spruzzato dentro qualcosa di suo… sentivo la mia mente pervasa dal pensiero di lei, non riuscivo a pensare a nient’altro, Roma era Camilla, il mondo era Camilla, l’universo era Camilla. Eppure, mi sforzavo di pensare con un briciolo di razionalità, questa ragazza non ha niente di diverso dalle altre, domenica sera tornando a casa mi ero soffermato a pensare che era anche un po’ stronzina… eppure… la sentivo importante, molto importante per me… sentivo confusamente che nulla sarebbe più stato come era stato finora. Passai una mezz’ora a temere che tutto fosse un sogno. Ho già provato questa sensazione –mi dicevo- tra un attimo mi sveglierò e mi ritroverò nel mio letto. Invece chiudevo gli occhi, li riaprivo e davanti a me vedevo sempre lei. Camilla prima di ogni cosa, Camilla sopra ogni cosa. Davanti a lei mi sentivo niente. Persino tutto l’amore che provavo o che credevo di provare era niente. Restammo a parlare per tutta la notte. Credo di ricordare le parole che ci dicemmo (o forse le ho rielaborate ogni volta che ho ripensato a questi momenti e ci ho aggiunto qualcosa via via che le circostanze facevano di me una persona diversa nel corso della mia lunga vita). Ma delle mille parole che sussurrammo al cielo non ce n’è una che mi vada di scrivere qui dentro. Era quasi l’alba quando la presi per mano e la guidai verso casa mia. Un fornaio aveva già messo sul banco degli sfilatini caldi e ne comprammo due. Mi accorsi di non avere la chiave di casa, ma non me ne importava più di tanto. Spuntò il sole, ma noi non lo vedemmo. Ci eravamo addormentati, mano nella mano sulla scala.   




venerdì 13 aprile 2012

da QUESTO PICCOLO GRANDE AMORE: Primo flashback (Camilla ricorda) LAMPADA OSRAM




PRIMO FLASHBACK: (Camilla ricorda)

 Lampada Osram

Camilla seduta nel vagone semivuoto si passò un filo di burro cacao sulle labbra e fece una piccola smorfia. “Mi ero ripromessa che non avrei mai usato in vita mia la parola imbranato e invece… Che poi le persone che la gente chiama imbranate sono di solito quelle più ingenue, più tenere, più indifese…”
 Socchiuse gli occhi e le tornò alla mente un fatto di un paio di anni prima, quando ancora abitava in borgata e frequentava la prima superiore. Un giorno di maggio era venuta a Roma con la scuola. Tra il Colosseo e i fori imperiali l’aveva avvicinata un pariolino ed aveva attaccato bottone. Era bello, elegante, simpatico, non goffo e timido come lei.
Quando già stava perdendo la testa (come avrebbe detto suo padre) o aveva deciso di starci (per usare un lessico a lei più consono) era arrivata l’insegnante di matematica e l’aveva riportata nel gruppo, non prima che il ragazzo, di cui manco sapeva il nome, le fissasse un appuntamento per il sabato pomeriggio.
“Sabato? E dove” aveva chiesto.
“Alle otto. A Stazione Termini”
“Eh ma è grande Stazione Termini” aveva detto lei, quasi pentita di aver accettato.
E lui “Non ti puoi sbagliare, ci vediamo sotto il cartellone pubblicitario della lampada Osram”.
Camilla  aveva detto ai genitori che sarebbe andata a studiare a casa di un’amica (“sai, la Lalla, quella che è appena arrivata da Frosinone, poverella, non conosce nessuno, sì quella che non ha ancora il telefono…”) e che sarebbe poi andata a vederla giocare a basket. Miracolosamente le avevano creduto e, pur con mille raccomandazioni, le avevano dato il permesso. (Piccola nota storica per i lettori più giovani: oggi nell’era dei cellulari nessuno lo ricorda più, ma ancora pochi anni fa, quando non si voleva dire ai genitori dove si andava, si diceva sempre che si andava dall’amico o dall’amica senza telefono). Camilla socchiuse gli occhi con un senso di disagio. Ricordare le dava fastidio, ma anche una specie di sottile piacere.
“Ero lì dalle sette e venti, ma ovviamente mica pensavo che lui sarebbe arrivato in anticipo… o meglio ci speravo sì, ma non con un anticipo così forte… quaranta minuti… trenta… quindici… cinque… ecco adesso però sono le otto… Dio che casino, mi gira la testa, macchine, valige, taxi, venditori di cartoline, persone di ogni razza, preti, suore, soldati… comincia a fare fresco, l’aria mi scompiglia i capelli, meglio annodare il foulard... eccolo è lui, no è uno che gli somiglia, anzi da vicino non gli somiglia neanche un po’… sono io che ho le traveggole… è il primo appuntamento della mia vita, ci tengo da matti… non vedo l’ora che arrivi… chissà se avrà ancora quei pantaloni a zampa d’elefante che aveva l’altro giorno… mi piacciono i pantaloni a zampa d’elefante, anzi no, mi piace lui… otto e un quarto, ormai ci siamo, sta per arrivare, chissà che emozione, non devo arrossire quando mi saluta, quando mi bacia… io gli dirò ciao poi parlerà lui, a me non verrebbero le parole… salivazione azzerata come dice quel comico della televisione… e quello chi è? cosa vuole da me? Via Boncompagni? Non sono pratica della zona, mi spiace… pussa via, avrai anche un gradevole profumo di lillà, bello mio, ma decisamente hai una faccia da galera, mai però come gli altri tre con cui eri in macchina… perché è tutta sera che mi vengono in mente due canzoni che ascolta sempre il mio papà? “Madeleine” di Brel e “L’appuntamento” della Vanoni… beh perché hanno in comune l’argomento… uno che fissa un appuntamento e si becca un bidone della madonna…otto e venti… ma io mica l’ho dato l’appuntamento, io l’ho accettato, non avrebbe senso darmi un appuntamento e non venire…non devo pensare a queste canzoni, devo pensare che tra un attimo arriverà e mi porterà a vedere il tramonto… magari si inventerà delle scuse, i maschi ne hanno sempre una pronta, solo per non dirmi che si è fermato al bar con gli amici…e poi si dichiarerà come ha fatto quel tipo che gioca a tennis con la mia amica Laura… anzi no glielo dico io che mi piace tanto tanto… si brava l’imbranatissima Camilla che si dichiara al primo amore, ma che stai a dire, pensa piuttosto se è qui che lo devi incontrare… ma avrò capito giusto? Di pubblicità della lampada Osram io vedo solo questa… altre non ce ne sono in tutta la stazione… devo fare l’imbronciata o la felice quando lo vedo? E che ne so, è così difficile vivere una situazione per la prima volta… otto e trenta, fa buio, altro che tramonto… ormai è notte…laggiù c’è giusto un autobus che va dalle parti mie, sarà il caso che me ne torni a casa… senti come rimbombano i miei passi sul selciato… mi sembra che tutti mi guardino… che tutti sappiano… chissà dove ho messo il biglietto”.



venerdì 6 aprile 2012

da QUESTO PICCOLO GRANDE AMORE: BATTIBECCO


domenica

Battibecco


Passarono poco più di ventiquattro ore e la domenica pomeriggio telefonai a Camilla chiedendole se veniva con me a fare un giro a piazza di Spagna. Il suo tono, ma soprattutto la sua risposta mi gelarono: “Certo che ci vengo, ne abbiamo di cose da chiarire”.
Mentre camminavo con una vaga inquietudine verso il luogo dell’appuntamento continuavo a rimuginare tra me queste misteriose parole. Chissà cosa avrà voluto dire… certo che per essere una che ho visto ieri mattina per la prima volta si allarga bene la piccola.... Da una finestra spalancata mi colpì l’orecchio la voce di Lando Fiorini:
                                  fiore de pepe…
                                          tutte le cose a modo vostro fate…
                                          ma verrà il dì che a modo mio farete”.

 Toh eccola là, tra un momento sapremo
Si avvicinò senza un saluto, senza un gesto, senza preamboli, mi cacciò in faccia i suoi occhi blu che la mattina precedente mi erano parsi molto più dolci e sibilò con aria scocciata:
“Ehi, bello, cos’è che abbiamo fatto io e te? No, davvero, dimmelo, perché io non me lo ricordo, meno male che ci sono i tuoi amici a rinfrescarmi la memoria”.
All’improvviso, come un lampo di luce in una notte buia (cazzo, Claudio, quando scrivi queste cose mi fai girare le palle, mi sembri Snoopy…) compresi l’arcano ed in quel momento mi sarei dato una martellata in testa.
La sera prima ero uscito come tutti i sabati con i miei amici e chissà come mai tutti già sapevano che la mattina ero stato visto in un certo bar con una biondina acqua e sapone sì, ma pur sempre un gran bel pezzo di figliola. Subito avevano cominciato a tempestarmi di domande non tanto sul “chi è” e sul “dove sta”, ma sul “cosa ci hai fatto”. Sarà stata la brezza di marzo, sarà stato un gin tonic di troppo, sarà stato il mio narcisismo di ventenne, saranno state, diciamola tutta, le mie ricorrenti frequentazioni di riviste porno, unica via di scampo dalla mia casta vita, insomma mi ero messo a raccontare di tutto di più, con un’abbondanza di particolari di cui io stesso mi divertivo e mi stupivo mentre mi uscivano dalla bocca… Peccato che la sera stessa il mio amico Gigi avesse spifferato tutto ad un suo amico che era amico del fratello di Camilla.
“Ascolta, Camilla, prima di incavolarti cerchiamo di ragionare… probabilmente c’è stato un equivoco, qualcosa da chiarire, ma a noi che ce ne frega, su non stiamo a parlare di queste cose… ma lo sai che ti sta bene questa maglietta…”
“Senti, non cercare di cambiare discorso”
“Ma dài Camilla, uno ti dice una fregnaccia e tu subito abbocchi, non ti fidi di me?”
“Non è questione di fiducia, solo che…”.
“Solo che?”
“Solo che a me i dongiovanni mi stanno sulle palle ecco tutto”
“A fanatica, dongiovanni tu lo dici a tuo fratello, hai capito? E poi io ai miei amici racconto quel cazzo che  mi pare”.
“Ecco,  bravo, racconta. E’ l’unica cosa che sai fare. Che poi mi piacerebbe vederti impegnato in tutte quelle performances erotiche… quanto ad erotismo ne provavo di più da bambina, quando mio nonno mi portava all’asilo”
“Questa non l’ho capita”.
“Ah no? Intendo dire che almeno lui un bacetto sulla guancia me lo dava”.
“Oh ciccia, se non ti vado bene, pedalare, la strada è quella”.
“E vai Claudio!!! Mica male come approccio erotico”.
“Ascolta Camilla, parliamo seriamente. Io ogni volta che stiamo assieme ho una gran voglia di baciarti, ma tu hai un modo di fare un po’, non so come dire… aristocratico, un’ironia… sai, io ho il mio orgoglio”.
“Ironia? Aristocrazia? Orgoglio?A Clà, mi sa che sei un pochino imbranato… che mi stai a dire, che devo prendere io l’iniziativa?”
Eravamo ad una fermata del metrò. Lei fece il gesto di imboccare la scala.
 “Pace?” dissi senza troppa convinzione.
Camilla alzò le spalle. “Pace – disse- ma ti avverto che non sopporto questo tipo di smargiassate”.
In quel momento non era proprio il caso di provare a baciarla; la seguii con lo sguardo finché la metropolitana non la inghiottì. Da un vecchio giradischi Sergio Centi cantava
                               
                                    fiore de poi…
                                            che tutta la cagione foste voi…
                                            me dassiro ‘na spinta e ce cascai”.