venerdì 27 gennaio 2012

Da "Ti racconto una canzone"  EL PUUNT  (IL PONTE)

EL PUUNT    (Il ponte)

Che notte d’inferno! In tutta la mia vita non ho mai visto un tempo del genere. E’ una di quelle notti in cui si sta bene in casa, al caldo, con un bicchiere in mano. Non invidio i contrabbandieri né i finanzieri che in notti come queste ci lavorano. Il vento sferza il lago, disturbando ragni e lucertole nel loro sonno notturno, qualche raro pipistrello solca il cielo, il buio è totale. L’acqua ha il colore del catrame. E per fortuna che in lontananza si vedono le luci di Lezzeno, perché io stasera sono uscito senza pila. Ho un bastone ed una rosa nella mano destra, un mozzicone di candela che sembra spegnersi da un momento all’altro nella sinistra e la sigaretta in bocca. Vedo il fumo che tremola, anzi no, sono io che tremo, di freddo, d’emozione, forse di paura? Sento i miei passi sul greto del lago e mi sembra che tutto il paese si debba svegliare al rumore. Ma che ci faccio io qui, stanotte, sotto questo ponte, con l’unica compagnia di pezzi di legno marcescenti e dei topi di fogna? Sono qui perché ti ho dato un appuntamento, Rosa, e tu come al solito non hai detto né sì né no ed allora io mi sono autoconvinto che verrai. Ripercorro con la mente la nostra storia che non è mai diventata amore per colpa delle tue incertezze, della tua ambiguità, di certe tue scelte incomprensibili: per esempio non mi hai mai permesso di salire in casa tua. Incontri fugaci, baci appassionati qui sotto il ponte di Azzano, ma mai una volta in casa tua. “Da me uomini non ne salgono” dicevi ostinata. E stanotte non arrivi. Anche stanotte sento che mi andrà buca, ma stavolta non sono più disposto a sopportare questo tuo giocare al gatto con il topo. Ti vengo incontro… Passo sotto casa tua… guardo dentro la tua finestra, l’unica ancora illuminata di tutto il paese. Allora ti stai preparando… Guardo meglio. C’è un uomo in casa tua. Deve far davvero caldo lì dentro, perché si è tolto la camicia e ride sorseggiando qualcosa da un bicchiere di cristallo. Ma che bel quadretto edificante. Solo che io in questo quadro non ci sono. Sono fuori dal disegno, sono fuori anche dalla cornice. Io non esisto.
Il mio sogno di una vita con te stanotte fa le valige.
Ho deciso che non torno a casa.
Mi avvio di nuovo verso il luogo del nostro appuntamento.
Domattina, quando ti sveglierai, sentirai raccontare di un uomo che dorme sul fondale sassoso e di un bastone e di una rosa che galleggiano sul lago.





EL PUUNT
(Davide Van de Sfroos)

Suta el puunt in de dorma el sass, passa l'unda cumè una frusta
Passa el veent in de la ca del ragn e la luserta equilibrista,
ruverà la rattapignoela e la nocc che la rastrèla el laagh
tuta l'acqua la paar catràmm...suta el punt ghe sun dumà me...

Diisi cume mai...seet gnamò ruvada
e me lasset che insèma ai tocch de legn
gh'è dumà el riflèss de la luus de Lèscen
e poe gh'è un'umbriia in soe'l tò balcon

trema trema candela storta, trema foemm de la sigarèta,
trema coer che và innaanz e indree...trema pass che fa pioe frecass...
quanti nocc suta sta finestra a sugnà de sultà deent
quanti nocc suta el puunt de 'Zzàn per basàss cumè duu assassèn

Diisi cume mai me sun chè scunduu e sun chè a parlà insema ai ratt de fogna
Mentre gh'è un omm in de la tua cà...senza la camisa e cul buceer in mànn

Te speciavi cun scià una roesa adess te speci cun scià un bastòn
La finestra la paar quel quadru che speravi de mai vedè
Sun restaa foe del tò disègn, sun restaa foe de la curniis
Sun restaa foe de la finestra e 'l mè sogn el gh'ha scià i valiis

Diisi cume mai...seet gnamò ruvada e me lasset che insèma ai tocch de legn
gh'è dumà el riflèss de la luus de Lèscen e poe gh'è un'umbriia in soe'l tò balcon

Diisi cume mai me sun chè scunduu e sun chè a parlà insema ai ratt de fogna
Mentre gh'è un omm in de la tua cà...senza la camisa e cul buceer in mànn

Suta el puunt in de dorma el sass passa l'unda cumè una frusta
Passa el veent in de la cà del ragn e la luserta equilibrista...
Suta el punt in de dorma el sass questa nocc durmiroo anca me
Gh'è una roesa che sfida l'unda...e galègia anca el mè baston.

Questa canzone è stata incisa da Davide Van de Sfroos








venerdì 20 gennaio 2012

Da "Ti racconto una canzone"  AGNESE

                                  AGNESE

“Buon Natale anche a te, carissimo! Auguri a tutta la famiglia”. E anche questa è fatta. Se avessi il suo numero di telefono o il suo indirizzo farei gli auguri anche ad Agnese… ma… chissà perché non ce li siamo scambiati. Peccato, perché io continuo a  pensare a lei,  anche se ormai sono passati quattro mesi. Come posso definire quello che ho provato per Agnese? Amore? beh, non esageriamo… cotta? infatuazione? avventura estiva? Mah, sono tutti termini che vanno bene, basta intendersi… rispolverando vecchi ricordi di scuola parlerei di amore stilnovistico o di amore platonico. Ricordo che alle superiori noi ragazzi sghignazzavamo quando il professore spiegava questi concetti e lui, senza scomporsi, cercava di chiarire i termini della questione. “Non sto dicendo che questo sia l’amore –spiegava paziente con la sua voce impostata in diaframma- dico che è uno dei tanti tipi di sentimento possibile, anche se mi rendo conto che chiamarlo amore può essere una forzatura; oggi viviamo in una società puntata su certi valori e non su altri e difficilmente si vive questo tipo di sentimento, ma potrebbe capitare ad ognuno di noi di essere affascinati da una donna e di desiderare di stare con lei, di guardarla, di parlarle, di ascoltarla, pur senza provare un minimo di desiderio erotico”. “Sarà” dicevamo noi ridacchiando e dandoci di gomito. A me questa cosa non andava giù “o una donna ti piace o non ti piace ma se ti piace …” pensavo. Beh, quest’estate, alla tenera età di trent’anni mi sono ricreduto. Forse solo ora riesco ad elaborare chiaramente quello che ho provato durante questa vacanza, adesso che senza Agnese sono sprofondato nella tristezza più nera: prendo la chitarra e ne traggo solo accordi tristissimi, non ho voglia di vedere nessuno… voglio stare da solo a ripensare a quegli strani giorni di agosto, alle risate per strada, ai giochi da ragazzini che lei mi faceva fare, tipo che ne so… fissare un punto nel cielo e dire “è lì… si muove… è verde…” e vedere che tutti prima o poi alzavano gli occhi al cielo. Con Agnese queste cose le facevo. Ma cominciamo dal principio.
Ero in vacanza da solo a Marina di Camerota e dato il pienone di agosto il padrone dell’hotel mi aveva chiesto se non mi dispiaceva ospitare al mio tavolo un’altra persona, io avevo detto di sì e lui aveva fatto segno di avvicinarsi e di sedersi al mio tavolo ad una ragazza sui venticinque anni, alta, castana, abbronzantissima tanto che fui sul punto di chiederle se fosse mulatta. Si presentò con semplicità, mi disse di chiamarsi Agnese e di abitare in un paesino del Piemonte, me ne aveva anche detto il nome, ma io per i nomi proprio non sono portato. Era simpaticissima, una vera chiacchierona, un po’ ingenua, un po’ sprovveduta, ma dotata di un senso dell’ironia incredibile. Il nostro rapporto cominciò il giorno in cui la invitai a fare un giro in bicicletta. Pedalammo sulla statale, facemmo una breve sosta per bere qualcosa alle foci del Mingardo, passando davanti al “Ciclope” (la grotta che Virgilio descrive come la casa di Polifemo, oggi trasformata nella più grande discoteca d’Italia) le chiesi se le piaceva ballare, ma con mio grande sollievo rispose di no; poi andammo fino a Palinuro e ci fermammo sulla spiaggia. Il sole era caldissimo, ci sedemmo vicino ad un barcone rovesciato e cominciammo a parlare.
Quel giorno Agnese era più allegra del solito, mi faceva discorsi strani sulla bocca di una ragazza come lei: “sai che un tale stamattina mi ha detto che ho un bel sedere? E un altro ieri mi ha detto che le mie labbra sembrano fatte apposta per baciare”. Io non capivo se c’era dell’ingenuità o della malizia, se cercava di mandarmi un messaggio (beh no, mi era parso evidente da subito che io per lei ero solo un amico). Mi piaceva sentirla parlare, questo sì. Ora invece ripensando ai suoi discorsi sento qualcosa che mi stringe lo stomaco e non riesco a dire se sia gelosia o solo nostalgia di un cielo azzurro intensissimo, così diverso da questo cielo grigio dell’inverno milanese. Ho ripreso a bere anche se so che mi fa male, ma mi sembra che i liquori mi aiutino a dimenticare quei giorni che più passa il tempo e più pesano su di me come un’ossessione. Che incoerente che sono: mi lamento dell’aria inquinata della Lombardia,  e, nello stesso tempo, inquino il mio organismo con i superalcolici.
Ora tra le nubi filtra un raggio di sole, ma non è sufficiente a far diradare la nebbia. Stanotte non riuscivo proprio a dormire, sono uscito di casa alle cinque del mattino e mi sono messo a pedalare per le campagne della periferia. Beh c’è un motivo ovviamente: dopo quella prima gita uscimmo diverse volte in bicicletta, ma Agnese mi chiese se potevo portarla io sulla canna della mia, perché lei non amava pedalare, cosa che feci ben volentieri.
Ci alzavamo all’alba ed io la portavo in giro, lei cantava a squarciagola ed era felice. Anch’io ero felice. Mi bastava essere con lei, sentire la sua voce.
Ecco perché stamattina sto pedalando nella nebbia, per illudermi di rivivere le mie pedalate estive e, chissà, magari riprovare certe sensazioni. Ma sono solo. Sulla mia bicicletta non c’è Agnese con le sue canzoni, la sua carica umana, la sua risata cristallina, la sua voglia di vivere così contagiosa.
E’ strano: proprio ora mi viene in mente una cosa a cui in questi mesi non ho mai pensato. Siamo stati venti giorni insieme,  eravamo inseparabili, abbiamo riso, scherzato, giocato, nuotato, ma ci siamo confidati anche le cose più intime e più delicate. Posso tranquillamente affermare che le nostre anime si sono fuse una nell’altra.
Ma io Agnese non l’ho mai baciata.



Agnese
(Ivan Graziani)

Se la mia chitarra piange dolcemente
stasera non è sera di vedere gente
e i giochi nella strada che ho chiusi dentro al petto
mi voglio ricordare

Io penso ad un barcone rovesciato al sole
in un giorno in pieno agosto le biciclette in riva al mare
Agnese mi parlava e la sabbia era infuocata
ed io non so perché non l'ho dimenticata
Lei mi raccontava di quello che la gente
diceva del suo corpo con malizia ed allegria
ed io che sto provando le cose che provavo ieri
non ho capito ancora
se è gelosia se sono prigioniero
di questo cielo nero e di un ricordo che fa male
e se continuo a bere i miei liquori inquinati
è vero che quei giorni non li ho dimenticati

E' uscito un po' di sole da questo cielo nero
l'inverno cittadino sembra quasi uno straniero
Agnese dolce Agnese color di cioccolata
adesso che ci penso… io non ti ho mai baciata.
Io vado in bicicletta per sentirmi vivo
alle cinque del mattino con la nebbia nei polmoni,
ma non c’è più Agnese seduta sul manubrio
a cantar canzoni, a cantar canzoni.

Agnese dolce Agnese color di cioccolata
adesso che ci penso… io non ti ho mai baciata.

Questa canzone è stata incisa da Ivan Graziani







venerdì 13 gennaio 2012

Da "Ti racconto una canzone"   VIVO DA RE

                                                        VIVO DA RE

Carissima Sara,

ti sembrerà strano ricevere una mia lettera dopo la fine della nostra storia, ma ieri ho sentito Gianni e mi ha detto che vi siete visti la settimana scorsa alla festa di Valeria…  sei stata gentile a chiedergli come sto io, non mi aspettavo che, dopo avermi mollato dall’oggi al domani, ti preoccupassi del tuo ex…
Comunque, visto che lo vuoi sapere, io sto benissimo, vivo da re, magari non ti farà piacere sentirlo dire così brutalmente, ma non sento assolutamente il bisogno di te. La mattina dormo, mi alzo alle tre, e mentre mangio un boccone accendo il videoregistratore e guardo la registrazione del mio spettacolo della sera precedente. L’applauso del pubblico mi dà un’euforia che non ti immagini; insomma te lo ripeto, anche senza di te me la passo veramente bene. Oh, Sara, perché non mi telefoni qualche volta? Dico questo senza secondi fini, giusto per parlare dei vecchi tempi, dei nostri compagni di scuola (hai visto Franco in televisione  parlare delle malattie di  Leopardi e degli aspetti medici della passione di Cristo? Hai saputo che la Silvia ha ingrandito la farmacia? Sai che ho visto Lucio al concerto di Bob Dylan? Sai qualcosa di Laura? Purtroppo abita così lontano che vedersi è quasi impossibile, anche se ci terrei veramente…) o dei miti  dei nostri anni verdi (Roberto Baggio… Guccini… Che Guevara…) a proposito vai a vedere “I diari della motocicletta”, ti entusiasmerà come ha entusiasmato me. In questo momento non sono fidanzato. Ti parrà strano ma è proprio così, da quando sono diventato famoso ho una vita superimpegnata in cui non c’è posto per l’amore. Dischi, tournées, in casa ci sto pochissimo. E tu? Non ti annoierai di certo, non ti sei mai annoiata in vita tua. Dài telefonami, Sara… uffa, da come ti parlo sembra che io abbia voglia ancora di te… ebbene sì, almeno in certi momenti vorrei averti qui. E adesso è uno di questi momenti. Telefonami, Sara, confessa che l’idea di una serata con me ti attira; qualcosa deve pur essere rimasto di ciò che abbiamo costruito assieme.
Da quando mi hai lasciato la mia vita è una fuga: fuga da Milano, fuga dalle donne, fuga dalla realtà, mi immergo completamente nel mio rock come se fosse una droga, suono e dormo, dormo e suono, per dimenticare l’unica cosa che veramente mi manca: una carezza sul mio viso, una carezza dalla persona che se ne è andata da questa casa, ma che ha lasciato qui qualcosa di sé. Sono in crisi, Sara, mi sembra di morire, non mi riconosco più, non mi capisco più. Per dirtene una: stasera esco con una tipa, l’ho conosciuta dopo un concerto, a dir la verità non so quasi chi sia, le ho fissato un appuntamento ma se devo essere sincero non ricordo neanche che faccia abbia. Sai una cosa, Sara, più si avvicina il momento di incontrarla e più inconsciamente spero che ti assomigli. Come fai a vivere senza di me, Sara, non sei stanca di tipi che per portarti a letto ti offrono rose e noia? E quando sei sola la sera nel tuo letto non ti sembra di morire? Sento che mi desideri, Sara, sento che hai una voglia matta di avermi lì con te.

Ti amo, Sara.

Nella certezza di ricevere presto una lettera o una telefonata ti mando un bacione come quelli di una volta.

Il tuo Enrico


Vivo da re
(Enrico Ruggeri)


Vivo da re,
non ho bisogno più di quello che facevi tu per me.
Mi alzo alle tre, mi guardo alla TV
e sono sempre su, senza te.
Sentiamoci ogni tanto, per ricordare noi,
i vecchi compagni di scuola
e i nostri vecchi eroi.
No, lo sai, sto da solo io.
Non crederai, ma sto da solo io.
Io, dischi e tournées,
a casa quasi mai .E tu non ti annoierai? Dubito.
Voglia di te? Mah, forse adesso si, vorrei averti qui subito.
Telefonami ancora, confessa che ti va;
qualcosa è rimasto nel tempo, non si cancellerà.
Scappo via, ogni giorno sai,
suono il mio rock senza fermarmi mai.
Certo, pensandoci bene qualcosa mi manca,
qualcuno che sfiori la mia faccia bianca.
Può darsi che senta il bisogno di chi
ha lasciato qualcosa di sé proprio qui.
Muoio da un po’, non mi conosco più,
non mi capisco più.Come mai?
Stasera un'altra donna, a stento so chi è
però inconsciamente io spero che un po’ assomigli a te.
Scappo via, ogni giorno sai,
suono il mio rock senza fermarmi mai.
Sono sicuro che dentro qualcosa ti manca;
di rose e di noia devi essere stanca.
Che strade percorri toccando il cuscino?
A volte, lo so, mi vorresti vicino,
morendo un po’

Questa canzone è stata incisa da Enrico Ruggeri








venerdì 6 gennaio 2012

Da Ti racconto una canzone: ANCHE PER TE


ANCHE PER TE

Buongiorno signora Maria. La gente di qui mi ha detto così tante cose che ormai so tutto di lei, dei suoi novant’anni portati splendidamente. So che alle cinque di mattina è già in piedi: un caffè, un minimo di toeletta senza guardare lo specchio (la rattrista vedersi com’è ora e ripensare alla Maria di settanta o anche solo di quarant’ani fa…) e poi, col suo passo incerto e strascinato, via subito in chiesa a cantare le lodi del Signore. Forse a volte tra un Padre Nostro ed un’Avemaria si distrae un attimo e pensa alla sua vita, al mondo che ha conosciuto, così diverso dal mondo di oggi in cui non si riconosce; ma per lei ormai mondo è sinonimo di passato. E’ “passato” la cascina in cui è nata, il borgo rurale che allora era un comune ed ora è stato inglobato dalla grande Milano di cui è diventato un quartiere dormitorio tutto palazzoni, cemento, droga ed extracomunitari; quando lei nacque suo padre era in guerra, la vide per la prima volta che aveva tre anni e già parlava, poi gli anni terribili del dopoguerra, la fame nera placata solo da un po’ di polenta tre volte al giorno, la spagnola, gli scioperi dei contadini, l’occupazione delle terre, il fascismo, tanto lavoro e poche soddisfazioni, i fratelli e le sorelle a cui lei badava come una mamma, il papà tornato malato dalla guerra, il dito da lei lasciato in una macchina (e grazie a Dio solo un dito…) poi l’amore, il matrimonio e lo scoppio della seconda guerra mondiale. Pochi mesi di matrimonio e suo marito si ammalò di una malattia dal nome difficile da dire e da ricordare, ciò che lei ricorda bene, signora Maria, è che il Giovanni aveva bisogno di mare e il comune lo mandò a Pietra Ligure, lasciando lei ad affrontare gli anni duri della guerra e di Salò da sola. Trovò anche modo (mi dicono) di dare una mano alla Resistenza nascondendo in casa armi e volantini, ed una volta anche un partigiano ricercato dalle brigate nere. Poi il dopoguerra, il ritorno della pace, ma anche del pane e della carne; tutto sembrava nuovo, fresco, limpido, pulito, c’era nell’aria una ventata di ottimismo, anche il suo Giovanni era guarito ed era tornato a casa, ma una mattina svegliandosi se lo trovò morto nel letto: infarto. E da allora cinquantacinque anni di solitudine, affrontata non con rassegnazione ma con grinta, l’impegno nel sindacato e nel Partito Socialista, (quello di Sandro Pertini, dei Greppi, padre e figlio, di Riccardo Lombardi e di Lelio Basso, non quello che la fece piangere di vergogna ai tempi di Tangentopoli!!!), la nascita di due nipoti in cui da subito vide i figli che non aveva avuto… quante volte l’hanno sentita decantare la bellezza di lei o l’intelligenza di lui… e intanto gli anni passavano, l’Italia si riempiva di strade, di macchine e di elettrodomestici, la Madonnina di via Mosca che segnava il limite estremo del paese, un monumento che era nel cuore di tutti i suoi compaesani, anche degli atei, veniva abbattuta  e al suo posto ci costruivano un supermercato, gli studenti contestavano, l’uomo andava sulla luna, nelle strade si tornava a sparare e lei sempre ad aiutare chiunque  avesse bisogno: facendo una visita, o la spesa, o una telefonata, a volte anche solo dicendo una buona parola. Intanto i fratelli ed i nipoti andavano ad abitare lontano, i vecchi amici uno dopo l’altro morivano, il mondo era sempre più differente da quello che aveva conosciuto. Ora si sente una sopravvissuta… quasi tutti coloro che ha amato, che hanno significato qualcosa per lei riposano nel grande cimitero suburbano di via Seguro… a volte le sembra che Dio l’abbia dimenticata, che il suo star qui non abbia più senso, tanto più che non riesce più a dare una mano a chi ne ha bisogno… anzi comincia a trovare difficoltà anche ad aiutare se stessa… i nipoti sono diventati a loro volta adulti, e poi  vecchi, genitori stressati e pieni di grattacapi che le telefonano quando si ricordano: a Natale, a Pasqua, il giorno del compleanno… Non riesce ad orientarsi tra telefonini, computer, schede telefoniche, carte di credito; le sue preghiere terminano sempre con un’accorata implorazione: “Signore, prendimi con te”.
Buongiorno, Samantha (ma io so che ti chiami Piera, Samantha è il nome di battaglia che utilizzi quando esci la sera con i tacchi a spillo, la mini esagerata, la canottiera aderentissima, la parrucca rossa, il trucco vistoso, la borsetta con lo scomparto per i preservativi e quello per i soldi…) E’ dura e lunga la tua notte, povera Samantha, le cosiddette “donne di piacere”, come ha notato Georges Brassens, di piacere non ne provano per niente a subire il contatto con decine di bocche, mani, corpi estranei, spesso sporchi, sudati, bavosi, violenti, egoisti, pretenziosi. E tu devi sorridere anche se hai il magone, devi fingere non dico piacere, come le tue colleghe più fortunate che lavorano in appartamento, ma almeno indifferenza, mentre avresti voglia di urlare, di vomitare, di esprimere il tuo schifo ed il tuo disgusto. Ma il momento più brutto è il mattino, quando albeggia: le strade si svuotano, nessuno ti cerca più; un cappuccino, una brioche e te ne torni a casa. Perché è il momento più brutto? Perché in casa c’è lui, l’uomo di cui sei innamorata, quello che ti ha convinta a fare questa vita d’inferno. Tu entri e lui dorme. Si sveglia solo se ti sente dire che la notte è stata sfigata ed hai avuto pochi clienti (in questo caso balza in piedi bestemmiando e non di rado ti prende a cazzotti o a calci), altrimenti guarda appena la mazzetta di soldi che tu depositi sul letto e si volta dall’altra parte. E tu lo vedi bello, forte, muscoloso… tutte le attività erotiche che sei stata costretta a fare per tutta la notte con vecchi, maleducati, buzzurri, cafoni, scorfani, con lui diventerebbero giochi meravigliosi, un autentico dono d’amore e magari ci provi, ma lui sbuffa e prima di girarsi dall’altra parte ti ringhia nelle orecchie “lasciami dormire, cazzo!”.
Buongiorno Carmen, dolce ragazza del sud con la tua tuta da operaia, i grandi occhi scuri e l’aria sempre dimessa. Mi piace sentirti la mattina quando svegli il tuo bambino, a volte con dolcezza, a volte col tono un po’ isterico; però sai sempre trovare la parola giusta per i suoi piccoli grandi problemi con la maestra o con i compagni di scuola. Ti immagino di là del muro mentre gli prepari il caffelatte, il pane del giorno prima (qualche volta, ma solo qualche volta, i biscotti e la marmellata o la cioccolata), poi dalla finestra ti vedo mentre lo metti sulla canna della tua vecchia bici da uomo (dono di un nostro vicino di casa) e lo accompagni a scuola. Avevi quindici anni Carmen, ma allora tutti ti chiamavano ancora Carmela, quando a casa di un’amica hai conosciuto quel tipo. Tu non sapevi niente del mondo se non quel poco che ti avevano detto le amiche e i giornali che leggevi dalla parrucchiera (“Grand Hotel”… “Kissme”… “Cioè”…). Ti è parso di avere incontrato il principe azzurro,  hai creduto a tutte le balle che ti ha raccontato, hai vissuto per qualche settimana su una nuvoletta dorata, poi quando hai scoperto di essere incinta e glielo hai detto lui se n’è andato senza neppure un saluto. Solo allora un’amica ti ha detto che quel tipo era sposato e padre di due figli e che non avrebbe certo mandato a monte il suo felice ménage familiare per una mocciosa. Hai deciso da subito che lo avresti tenuto il bambino, non hai nemmeno voluto sentir parlare di aborto. Sei salita sul primo treno, senza neanche dirlo ai tuoi genitori, sei venuta a Milano, hai cominciato a fare la donna delle pulizie e continui a farlo di sera come secondo lavoro anche ora che sei stata assunta da un’industria metalmeccanica come operaia. D’altre parte le spese sono tante, lo stipendio è quello che è ed oggi la vita è veramente cara, specie in una grande città. Inoltre tuo figlio già non ha il papà, non vuoi farlo sentire troppo diverso dagli altri e qualche volta gli concedi qualcosa che oggettivamente non ti potresti permettere. Ti osservo spesso in ascensore, o al supermercato, o per la strada: ogni volta che un uomo ti guarda ti irrigidisci, ti si contraggono i lineamenti del volto e giri la testa dall’altra parte. Del resto lo scorso anno quando mi sono messo a farti il filo ho ottenuto solo di portarti una sera a mangiare un gelato. Non dimenticherò mai le tue parole: “Tu sei una cara persona, una persona perbene, sei anche un bel ragazzo… ma, scusami se te lo dico, io dei maschi ho il terrore”. Ti capisco. L’unico che hai conosciuto ti ha così devastata che non hai più il coraggio di cominciare una nuova storia E un’altra cosa ho notato: ogni volta che vedi passare una coppia mano nella mano o spingendo una carrozzina o quando senti discorsi tipo “non vedo l’ora di raggiungere la mia famiglia al mare” trattieni a stento un sospiro e gli occhi ti si riempiono di lacrime. Nella tua vita hai commesso un solo errore, ma lo stai pagando a caro prezzo. Deve essere terribile vivere di rimpianto.
Maria, Samantha, Carmen, donne meravigliose, piene di coraggio, vite intrise di lacrime e di sospiri, ma si sa che il dolore rende sensibili, grandi, buoni: sento di volervi bene. Mi accade di pensare a voi per ore ed ore… vorrei parlare di voi, scrivere di voi, dedicarvi una poesia, una canzone, magari solo un pensiero… Invece ho finito per dedicare la mia vita ad una persona che le mie riflessioni non è in grado di apprezzarle. E anch’io nei momenti di solitudine ho un sogno segreto: prendere la mia sensibilità e farla fluttuare nel vento, finché non raggiunga “lei”, quell’altra che anche nel vento la riconoscerebbe; l’apprezzerebbe e mi direbbe finalmente quel sì che non mi ha mai detto.


Anche per te
(Mogol-Battisti)
Per te che è ancora notte e già prepari il tuo caffé
 ti vesti senza più guardar lo specchio dietro te
che poi entri in chiesa e preghi piano
e intanto pensi al mondo ormai per te così lontano.
Per te che di mattina torni a casa tua perché
per strada più nessuno ha freddo e cerca più di te
per te che metti i soldi accanto a lui che dorme
e aggiungi ancora un po' d'amore a chi non sa che farne.
Anche per te vorrei morire ed io morir non so
anche per te darei qualcosa che non ho
e così, e così, e così
io resto qui
a darle i miei pensieri,
a darle quel che ieri
avrei affidato al vento cercando di raggiungere chi...
al vento avrebbe detto sì.
Per te che di mattina svegli il tuo bambino e poi
lo vesti e lo accompagni a scuola e al tuo lavoro vai
per te che un errore ti è costato tanto
che tremi nel guardare un uomo e vivi di rimpianto.
Anche per te vorrei morire ed io morir non so
anche per te darei qualcosa che non ho
e così, e così, e così
io resto qui
a darle i miei pensieri,
a darle quel che ieri
avrei affidato al vento cercando di raggiungere chi...
al vento avrebbe detto sì.
Questa canzone è stata incisa da Lucio Battisti e da Silvia Salemi