venerdì 25 novembre 2011

Da "Ti racconto una canzone"   LE PASSANTI


LE PASSANTI

Piove, fa freddo, sto poco bene stasera. E’ inverno, viene buio prestissimo, alle quattro sembra già notte. Sono qui in casa da solo e continuo a pensare ad alcune persone che sicuramente, tranne una, neppure sanno della mia esistenza. D’altra parte io di loro so così poco… non so neppure il nome. Ed allora per rivolgermi a loro userò nomi fittizi, uno per ogni lettera dell’alfabeto.

Cominciamo da te, Anna, che un giorno sul tram 24, con un dolce accento pugliese hai chiesto la strada per la stazione Centrale ad un signore seduto accanto a me. Lui ti ha guardato con ostilità e ti ha risposto “uei, teròna, se te cunùset minga Milan sta a ca tua!”. Tu sei impallidita e hai distolto lo sguardo da lui. Stavi per metterti a piangere.  Io dapprima ho pensato di non intervenire, altrimenti lo avrei preso a sberle, ma poi ho visto nei tuoi occhi la sofferenza e l’umiliazione e mi sono intromesso. Ti ho detto di scendere con me a Crocetta e di prendere la linea 3 (gialla). Anzi ti ho accompagnata fin giù in metropolitana, e tu non sapevi come ringraziarmi. Avevi un sorriso luminoso e quando mi hai detto “grazie” e all’improvviso mi hai abbracciato e baciato sulle guance ti splendevano gli occhi. Quanto è durato il nostro incontro? Due, tre minuti non di più. Chissà perché a volte penso che se ci fossimo frequentati ci saremmo fatti felici a vicenda…

E poi ci sei tu, Barbara, che ho visto una mattina di marzo passando per quella via del Gallaratese, di cui di proposito non ho voluto leggere il nome. Era un giorno in cui sembrava che tutto mi andasse male, venivo da un colloquio di lavoro in cui mi avevano respinto, ma anche ridicolizzato e questo non lo trovo corretto. Poche volte nella mia vita mi sono sentito triste come in quel momento. Aspettavo l’autobus ed ho sollevato gli occhi verso la casa di fronte. Ti ho vista alla finestra. Trent’anni o poco più, carina, castana. Uno sguardo da persona saggia, pieno di comunicativa. In un attimo ho pensato che se ti avessi parlato dei miei problemi mi avresti capito. Ad una persona con uno sguardo come il tuo avrei confidato volentieri le mie pene e le mie sofferenze. Tu, i gomiti appoggiati al balcone, guardavi la strada ed io speravo che i tuoi occhi si accorgessero di me, ma in casa tua è squillato un telefono. E’ stato un attimo. Sei entrata a rispondere e in quel momento è passato il mio autobus. So che non avrei dovuto prenderlo.

E tu, Chiara, che in un giorno di luglio del lontano 1966 sei  salita sul treno a Chiavari con una valigia pesantissima ed hai riso quando io ti ho aiutato a metterla sul portabagagli facendo una fatica tremenda? Eravamo io e te da soli nello scompartimento, mentre il resto del mondo era a casa a vedere la finale dei mondiali di calcio: Inghilterra-Germania. Non ho guardato neppure per un attimo dal finestrino, nonostante io ami la natura appenninica; i tuoi occhi quel pomeriggio erano il più bel paesaggio. Ti ricordo come un fiume in piena, non smettevi di parlare: la Sardegna, la casa dei tuoi genitori  a picco sul mare di Cala Gonone, la tua infanzia a Cala Mariolu tutta vostra ed ancora non invasa da “sos italianos”, le passeggiate nell’interno fin sotto il Supramonte, quella sagra di paese in cui hai ballato col bandito Mesina, latitante e ricercato da migliaia di agenti… la carta da musica… la massa frissa… la seada… il porceddu… io ti ascoltavo affascinato; quando il treno si è fermato credevo fossimo a Genova o al massimo a Ronco Scrivia ed invece eravamo già arrivati a Milano…  Ho avuto un attimo di esitazione nel salutarti. Mi è sembrato sciocco, banale chiederti il numero di telefono… ma, forse, chissà, quel numero avrebbe cambiato le nostre vite.

Invece il tuo nome, Debora lo conosco fin troppo bene, come conosco bene te, vecchia amica che per tanti anni ha condiviso con me gioie e dolori. Sapevamo tutto l’uno dell’altra, solo una cosa non ti ho mai detto: che mi ero innamorato di te. E sai perché non te l’ho mai detto? Perché ogni volta che ci incontravamo tu mi parlavi del tuo ragazzo: bello, buono, simpatico, dolce, comprensivo, atletico, vincente… ed è solo una minima parte degli aggettivi che trovavi per descrivermelo. A me è sempre parso un tipo comune, un ragazzotto crudo e un po’ montato, perso dietro alla sua moto, al calcio ed alla disco music; mi sono sempre chiesto cosa ci trovasse una ragazza fine come te in un tipo del genere,  ma non ho mai osato dirtelo, forse, chissà, la gelosia ottenebrava il mio giudizio ed io ho sempre detestato i gelosi. Ricordi che non sono venuto al tuo matrimonio e ti ho detto che stavo male? Beh era una malattia “diplomatica”, non volevo vederti salire all’altare con lui, ma in fondo ti ho detto la verità. Quel giorno stavo  male davvero. Poi ho scelto di sparire dalla tua vita e per anni non mi sono fatto vivo. Ma l’altra sera che ci siamo incontrati in centro per caso e ti ho offerto un caffè… eh Debora, davvero non dovevi dirmi quello che mi hai detto, tutto il male che ti ha fatto e che ancora ti sta facendo, tutti i suoi difetti, le sue magagne, le sue meschinità. Mi ha sconvolto la definizione che ne hai dato: “un uomo ormai troppo cambiato”. Non avresti dovuto permettermi di sbirciare nel tuo presente squallido e  nel tuo avvenire disperato. E’ stata una pazzia. Una pazzia inutile. Io ho detto “mi dispiace”, ma dentro me ho pensato “lo sapevo”.

Stasera penso a voi, care immagini che per un attimo avete incrociato la mia vita, ma già so che domani vi avrò dimenticate. Basta un minimo di felicità e certe figure sfumano nell’oblio. Ma non sono poi così sicuro di questo. Può darsi che un giorno mi accorgerò di aver fallito nella vita e in questo caso… le persone intraviste per un attimo diventeranno le uniche compagne della mia esistenza. Conosco bene quelle sere di stanchezza e solitudine, sere grigie come questa, in cui i fantasmi del passato si  insinuano nella nostra anima, trasformandosi in persone che ci avrebbero capito, cuori che ci avrebbero atteso, occhi  in cui ci saremmo persi. Sono questi i momenti in cui si piangono le labbra assenti e la compagnia di tutte le belle passanti che non siamo riusciti a trattenere. 

 
Les passantes
(Antoine Pol mis en musique par Georges Brassens) 
 
  Je veux dédier ce poème 
  A toutes les femmes qu'on aime 
  Pendant quelques instants secrets, 
  A celles qu'on connaît à peine, 
  Qu'un destin différent entraîne 
  Et qu'on ne retrouve jamais. 
 
  A celle qu'on voit apparaître 
  Une seconde, à sa fenêtre 
  Et qui, preste, s'évanouit, 
  Mais dont la svelte silhouette 
  Est si gracieuse et fluette 
  Qu'on en demeure épanoui.
 
  A la compagne de voyage 
  Dont les yeux, charmant paysage 
  Font paraître court le chemin; 
  Qu'on est seul peut-être à comprendre, 
  Et qu'on laisse pourtant descendre 
  Sans avoir effleuré la main. 
 
  A celles qui sont déjà prises 
  Et qui vivant des heures grises 
  Près d'un être trop différent, 
  Vous ont, inutile folie 
  Laissé voir la mélancolie 
  D'un avenir désespérant. 
 
  Chères images aperçues 
  Espérances d'un jour déçues 
  Vous serez dans l'oubli demain; 
  Pour peu que le bonheur survienne, 
  Il est rare qu'on se souvienne 
  Des épisodes du chemin 
 
  Mais si l'on a manqué sa vie 
  On songe avec un peu d'envie 
  A tous ces bonheurs entrevus, 
  Aux baisers qu'on n'osa pas prendre, 
  Aux coeurs qui doivent vous attendre, 
  Aux yeux qu'on n'a jamais revus. 
 
  Alors, aux soirs de lassitude, 
  Tout en peuplant sa solitude 
  Des fantômes du souvenir, 
  On pleure les lèvres absentes 
  De toutes ces belles passantes 
  Que l'on n'a pas su retenir. 
 
 
Le passanti
(traduzione di Fabrizio de André)
 
 
Io dedico questa canzone

ad ogni donna pensata come amore

in un attimo di libertà

a quella conosciuta appena

non c'era tempo e valeva la pena

di perderci un secolo in più.



A quella quasi da immaginare

tanto di fretta l'hai vista passare

dal balcone a un segreto più in là

e ti piace ricordarne il sorriso

che non ti ha fatto e che tu le hai deciso

in un vuoto di felicità.



Alla compagna di viaggio

i suoi occhi il più bel paesaggio

fan sembrare più corto il cammino

e magari sei l'unico a capirla

e la fai scendere senza seguirla

senza averle sfiorato la mano.



A quelle che sono già prese

e che vivendo delle ore deluse

con un uomo ormai troppo cambiato

ti hanno lasciato, inutile pazzia,

vedere il fondo della malinconia

di un avvenire disperato.



Immagini care per qualche istante

sarete presto una folla distante

scavalcate da un ricordo più vicino

per poco che la felicità ritorni

è molto raro che ci si ricordi

degli episodi del cammino.



Ma se la vita smette di aiutarti

è più difficile dimenticarti

di quelle felicità intraviste

dei baci che non si è osato dare

delle occasioni lasciate ad aspettare

degli occhi mai più rivisti.



Allora nei momenti di solitudine

quando il rimpianto diventa abitudine,

una maniera di viversi insieme,

si piangono le labbra assenti

di tutte le belle passanti

che non siamo riusciti a trattenere.

Questa canzone è stata incisa in francese da Georges Brassens e in italiano da Fabrizio de André.




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