venerdì 25 novembre 2011

Da "Ti racconto una canzone"   LE PASSANTI


LE PASSANTI

Piove, fa freddo, sto poco bene stasera. E’ inverno, viene buio prestissimo, alle quattro sembra già notte. Sono qui in casa da solo e continuo a pensare ad alcune persone che sicuramente, tranne una, neppure sanno della mia esistenza. D’altra parte io di loro so così poco… non so neppure il nome. Ed allora per rivolgermi a loro userò nomi fittizi, uno per ogni lettera dell’alfabeto.

Cominciamo da te, Anna, che un giorno sul tram 24, con un dolce accento pugliese hai chiesto la strada per la stazione Centrale ad un signore seduto accanto a me. Lui ti ha guardato con ostilità e ti ha risposto “uei, teròna, se te cunùset minga Milan sta a ca tua!”. Tu sei impallidita e hai distolto lo sguardo da lui. Stavi per metterti a piangere.  Io dapprima ho pensato di non intervenire, altrimenti lo avrei preso a sberle, ma poi ho visto nei tuoi occhi la sofferenza e l’umiliazione e mi sono intromesso. Ti ho detto di scendere con me a Crocetta e di prendere la linea 3 (gialla). Anzi ti ho accompagnata fin giù in metropolitana, e tu non sapevi come ringraziarmi. Avevi un sorriso luminoso e quando mi hai detto “grazie” e all’improvviso mi hai abbracciato e baciato sulle guance ti splendevano gli occhi. Quanto è durato il nostro incontro? Due, tre minuti non di più. Chissà perché a volte penso che se ci fossimo frequentati ci saremmo fatti felici a vicenda…

E poi ci sei tu, Barbara, che ho visto una mattina di marzo passando per quella via del Gallaratese, di cui di proposito non ho voluto leggere il nome. Era un giorno in cui sembrava che tutto mi andasse male, venivo da un colloquio di lavoro in cui mi avevano respinto, ma anche ridicolizzato e questo non lo trovo corretto. Poche volte nella mia vita mi sono sentito triste come in quel momento. Aspettavo l’autobus ed ho sollevato gli occhi verso la casa di fronte. Ti ho vista alla finestra. Trent’anni o poco più, carina, castana. Uno sguardo da persona saggia, pieno di comunicativa. In un attimo ho pensato che se ti avessi parlato dei miei problemi mi avresti capito. Ad una persona con uno sguardo come il tuo avrei confidato volentieri le mie pene e le mie sofferenze. Tu, i gomiti appoggiati al balcone, guardavi la strada ed io speravo che i tuoi occhi si accorgessero di me, ma in casa tua è squillato un telefono. E’ stato un attimo. Sei entrata a rispondere e in quel momento è passato il mio autobus. So che non avrei dovuto prenderlo.

E tu, Chiara, che in un giorno di luglio del lontano 1966 sei  salita sul treno a Chiavari con una valigia pesantissima ed hai riso quando io ti ho aiutato a metterla sul portabagagli facendo una fatica tremenda? Eravamo io e te da soli nello scompartimento, mentre il resto del mondo era a casa a vedere la finale dei mondiali di calcio: Inghilterra-Germania. Non ho guardato neppure per un attimo dal finestrino, nonostante io ami la natura appenninica; i tuoi occhi quel pomeriggio erano il più bel paesaggio. Ti ricordo come un fiume in piena, non smettevi di parlare: la Sardegna, la casa dei tuoi genitori  a picco sul mare di Cala Gonone, la tua infanzia a Cala Mariolu tutta vostra ed ancora non invasa da “sos italianos”, le passeggiate nell’interno fin sotto il Supramonte, quella sagra di paese in cui hai ballato col bandito Mesina, latitante e ricercato da migliaia di agenti… la carta da musica… la massa frissa… la seada… il porceddu… io ti ascoltavo affascinato; quando il treno si è fermato credevo fossimo a Genova o al massimo a Ronco Scrivia ed invece eravamo già arrivati a Milano…  Ho avuto un attimo di esitazione nel salutarti. Mi è sembrato sciocco, banale chiederti il numero di telefono… ma, forse, chissà, quel numero avrebbe cambiato le nostre vite.

Invece il tuo nome, Debora lo conosco fin troppo bene, come conosco bene te, vecchia amica che per tanti anni ha condiviso con me gioie e dolori. Sapevamo tutto l’uno dell’altra, solo una cosa non ti ho mai detto: che mi ero innamorato di te. E sai perché non te l’ho mai detto? Perché ogni volta che ci incontravamo tu mi parlavi del tuo ragazzo: bello, buono, simpatico, dolce, comprensivo, atletico, vincente… ed è solo una minima parte degli aggettivi che trovavi per descrivermelo. A me è sempre parso un tipo comune, un ragazzotto crudo e un po’ montato, perso dietro alla sua moto, al calcio ed alla disco music; mi sono sempre chiesto cosa ci trovasse una ragazza fine come te in un tipo del genere,  ma non ho mai osato dirtelo, forse, chissà, la gelosia ottenebrava il mio giudizio ed io ho sempre detestato i gelosi. Ricordi che non sono venuto al tuo matrimonio e ti ho detto che stavo male? Beh era una malattia “diplomatica”, non volevo vederti salire all’altare con lui, ma in fondo ti ho detto la verità. Quel giorno stavo  male davvero. Poi ho scelto di sparire dalla tua vita e per anni non mi sono fatto vivo. Ma l’altra sera che ci siamo incontrati in centro per caso e ti ho offerto un caffè… eh Debora, davvero non dovevi dirmi quello che mi hai detto, tutto il male che ti ha fatto e che ancora ti sta facendo, tutti i suoi difetti, le sue magagne, le sue meschinità. Mi ha sconvolto la definizione che ne hai dato: “un uomo ormai troppo cambiato”. Non avresti dovuto permettermi di sbirciare nel tuo presente squallido e  nel tuo avvenire disperato. E’ stata una pazzia. Una pazzia inutile. Io ho detto “mi dispiace”, ma dentro me ho pensato “lo sapevo”.

Stasera penso a voi, care immagini che per un attimo avete incrociato la mia vita, ma già so che domani vi avrò dimenticate. Basta un minimo di felicità e certe figure sfumano nell’oblio. Ma non sono poi così sicuro di questo. Può darsi che un giorno mi accorgerò di aver fallito nella vita e in questo caso… le persone intraviste per un attimo diventeranno le uniche compagne della mia esistenza. Conosco bene quelle sere di stanchezza e solitudine, sere grigie come questa, in cui i fantasmi del passato si  insinuano nella nostra anima, trasformandosi in persone che ci avrebbero capito, cuori che ci avrebbero atteso, occhi  in cui ci saremmo persi. Sono questi i momenti in cui si piangono le labbra assenti e la compagnia di tutte le belle passanti che non siamo riusciti a trattenere. 

 
Les passantes
(Antoine Pol mis en musique par Georges Brassens) 
 
  Je veux dédier ce poème 
  A toutes les femmes qu'on aime 
  Pendant quelques instants secrets, 
  A celles qu'on connaît à peine, 
  Qu'un destin différent entraîne 
  Et qu'on ne retrouve jamais. 
 
  A celle qu'on voit apparaître 
  Une seconde, à sa fenêtre 
  Et qui, preste, s'évanouit, 
  Mais dont la svelte silhouette 
  Est si gracieuse et fluette 
  Qu'on en demeure épanoui.
 
  A la compagne de voyage 
  Dont les yeux, charmant paysage 
  Font paraître court le chemin; 
  Qu'on est seul peut-être à comprendre, 
  Et qu'on laisse pourtant descendre 
  Sans avoir effleuré la main. 
 
  A celles qui sont déjà prises 
  Et qui vivant des heures grises 
  Près d'un être trop différent, 
  Vous ont, inutile folie 
  Laissé voir la mélancolie 
  D'un avenir désespérant. 
 
  Chères images aperçues 
  Espérances d'un jour déçues 
  Vous serez dans l'oubli demain; 
  Pour peu que le bonheur survienne, 
  Il est rare qu'on se souvienne 
  Des épisodes du chemin 
 
  Mais si l'on a manqué sa vie 
  On songe avec un peu d'envie 
  A tous ces bonheurs entrevus, 
  Aux baisers qu'on n'osa pas prendre, 
  Aux coeurs qui doivent vous attendre, 
  Aux yeux qu'on n'a jamais revus. 
 
  Alors, aux soirs de lassitude, 
  Tout en peuplant sa solitude 
  Des fantômes du souvenir, 
  On pleure les lèvres absentes 
  De toutes ces belles passantes 
  Que l'on n'a pas su retenir. 
 
 
Le passanti
(traduzione di Fabrizio de André)
 
 
Io dedico questa canzone

ad ogni donna pensata come amore

in un attimo di libertà

a quella conosciuta appena

non c'era tempo e valeva la pena

di perderci un secolo in più.



A quella quasi da immaginare

tanto di fretta l'hai vista passare

dal balcone a un segreto più in là

e ti piace ricordarne il sorriso

che non ti ha fatto e che tu le hai deciso

in un vuoto di felicità.



Alla compagna di viaggio

i suoi occhi il più bel paesaggio

fan sembrare più corto il cammino

e magari sei l'unico a capirla

e la fai scendere senza seguirla

senza averle sfiorato la mano.



A quelle che sono già prese

e che vivendo delle ore deluse

con un uomo ormai troppo cambiato

ti hanno lasciato, inutile pazzia,

vedere il fondo della malinconia

di un avvenire disperato.



Immagini care per qualche istante

sarete presto una folla distante

scavalcate da un ricordo più vicino

per poco che la felicità ritorni

è molto raro che ci si ricordi

degli episodi del cammino.



Ma se la vita smette di aiutarti

è più difficile dimenticarti

di quelle felicità intraviste

dei baci che non si è osato dare

delle occasioni lasciate ad aspettare

degli occhi mai più rivisti.



Allora nei momenti di solitudine

quando il rimpianto diventa abitudine,

una maniera di viversi insieme,

si piangono le labbra assenti

di tutte le belle passanti

che non siamo riusciti a trattenere.

Questa canzone è stata incisa in francese da Georges Brassens e in italiano da Fabrizio de André.




venerdì 18 novembre 2011

DOMENICA 24 MARZO

Da  Ti racconto una canzone"  DOMENICA 24 MARZO

 
DOMENICA 24 MARZO

“In nome di Sua Maestà  Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e volontà della Nazione re d’Italia felicemente regnante, questo Tribunale Militare dichiara il soldato Bonfanti Paolo colpevole del reato di omicidio per aver assassinato il tenente Lucarelli Giovanni il 24 marzo 1918. In applicazione del Codice Militare Penale di Guerra lo condanna alla pena di morte, mediante fucilazione alla schiena. Essendo la sentenza inappellabile questo Tribunale stabilisce che l’esecuzione abbia luogo non oltre le sei ore dalla lettura della sentenza.
Soldato Bonfanti avete qualcosa da dichiarare?”

“Sì signor Generale, sì, signori Ufficiali della Corte. Ho qualcosa da dichiarare, anche se penso che nessuno di voi possa comprendere appieno quanto sto per dire. Io ho fatto parte diverse volte della scorta ad ufficiali in missione ed ho visto dove voi combattete la guerra: nei castelli, nei palazzi della nobiltà, in uffici caldi e confortevoli. Avete legna, liquori, sigari, belle donne. Io sono da tre anni in trincea: fame, freddo, sporcizia, pidocchi, piscia, merda, sangue, vomito; muoiono i nostri compagni e fino al giorno dopo non possiamo seppellirli e li vediamo gonfiarsi e putrefarsi accanto a noi. A volte anche a noi vengono distribuiti cognac e cioccolata, ma è un ben funesto dono: quando ciò accade vuol dire che siamo alla vigilia di un assalto e noi godiamo di queste leccornie col presagio, che spesso si tramuta in realtà, di avere ancora solo poche ore da vivere. Voi ed io abbiamo della guerra un’idea diversa, perché combattiamo due guerre diverse.
Voi dite che combattiamo per il re, per la patria, per l’onore d’Italia. Io non riesco a capire cosa il re o la patria abbiano a guadagnare dalla conquista di quattro palmi di terra sassosa, non fertile, praticamente disabitata. Ci dite che oltre la trincea c’è il nemico. Un mese fa abbiamo fucilato un prigioniero austriaco che, a detta del tenente Lucarelli, aveva cercato di ribellarsi e di scappare. Per la prima volta in vita mia ho visto un austriaco da vicino. Era un bel ragazzo biondo e gentile; fischiettava “Il Pipistrello” di Strauss per farsi coraggio, chiedeva una birra… io ho vent’anni come lui, amo Strauss e la birra come lui. Perché devo sentirlo come un mio nemico? Non mi ha fatto niente, non gli ho fatto niente. Se invece di essere nato in Carinzia avesse avuto la ventura di nascere nel mio cortile oggi vestiremmo la stessa divisa e non sarei tenuto ad ammazzarlo.
L’altra sera un ufficiale ci ha letto i testi degli inni nazionali di tutti gli stati nostri alleati. I francesi vanno a morire perché i nemici “vengono fin tra le nostre braccia a sgozzarci i figli e le compagne”. Prendo per buona questa definizione di “nemico” e vi dico che nessun austriaco è mai entrato in casa mia a sgozzarmi figli e compagne.  Né io intendo andare a Vienna a fare qualcosa di simile.
Mio cugino mi ha mandato dall’America un libro di poesie che laggiù va a ruba. In alcune di queste poesie si parla di una guerra scoppiata una ventina di anni fa tra Stati Uniti e Spagna per la conquista delle Filippine. Ragazzi di vent’anni mandati a morire nelle risaie ed anche lì si parla di amore per la patria e per la bandiera. Ma l’unico amore che conoscono i soldati è quello (cito a memoria) “delle puttane impestate che ci venivano dietro/ ed atti bestiali tra noi e da noi soli”. In Francia hanno giustiziato un certo Landru, perché ha ucciso tredici donne. Lo hanno chiamato mostro esecrabile… belva infame… bruto… animale indegno del nome di essere umano. Chiedo a lei, signor generale: i vostri re, i vostri capi di stato maggiore in questi tre anni di guerra hanno ucciso più persone o meno persone rispetto al signor Landru? E allora come li dobbiamo chiamare? E che pena dovremmo dare loro?
Ogni tanto ci mandate all’assalto. Usciamo dalla trincea, distruggiamo tutto quanto troviamo, lasciamo sul campo decine e decine di compagni, conquistiamo una trincea identica a quella da cui siamo usciti… poi? Nel giro di pochi giorni la stessa cosa la fa il cosiddetto nemico e si torna alle posizioni di partenza.
Senta cosa ha scritto un mio compagno di trincea di cui non conosco il nome, un giovanotto toscano con un buffo accento mezzo arabo, mezzo francese:

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
 
Di tanti
che mi    
corrispondevano 
non è rimasto
neppure tanto
 
Ma nel cuore
nessuna croce manca
 
E' il mio cuore
il paese più 
straziato  
                          
E allora lei capirà che io ad un certo punto non ce l’ho fatta più.  Non ne posso più di questa guerra. Domenica 24 marzo mi sono svegliato per primo. Anche al mio paese la domenica mi alzo presto per andare a caccia e sento il suono delle campane, il canto degli uccelli, il profumo della campagna. Qui la prima cosa che ho sentito è stato in lontananza il rombo del cannone e poi quell’odore nauseante di morte che da sempre impesta la trincea, ma a cui è impossibile abituarsi.. Ho detto basta. Non c’è nulla che valga la rinuncia alla mia vita, alla mia giovinezza. Quando pochi minuti dopo il tenente ha cominciato a delirare che dovevamo salutare la bandiera, amare la bandiera, dare la vita per la bandiera non ci ho visto più. Come in un sogno, o in un incubo, ho cominciato ad inveire contro di lui e gli ho scaricato addosso l’intero caricatore della mia mitraglietta. Mi sono illuso che i miei compagni mi imitassero, che si potessero massacrare una volta tanto i nostri veri nemici, quelli che ci costringono ad ammazzare e a farci ammazzare per interessi che non sono i nostri e che poi si potesse finalmente tornare a casa. Come faccio a dirle che non ne posso più di rischiare la pelle? Come faccio a dirle che ho perso completamente il mio amor proprio? Io a casa mia non ho mai avuto paura di nessuno. Una volta che un toro imbizzarrito era scappato dalla stalla l’ho fermato da solo, a mani nude. Ora non ho più dignità. I miei compagni, storditi dal cognac e dai vostri discorsi, quando mi sentono parlare mi chiamano vigliacco. Una volta questa parola mi avrebbe ferito. Ebbene non ho più vergogna neppure a sentirmi dire vigliacco dai miei compagni.  Domenica 24 marzo ho guardato il cielo; un cielo grigio, lattiginoso, senza sole. Niente a che vedere col cielo blu del mio paese. Domenica 24 marzo ho capito che si concludeva lì la mia storia. Che non avrei avuto un avvenire. Ma io spero che il mio sacrificio possa aprire la mente a tante persone e che almeno per gli altri ci possa essere un avvenire di pace e di giustizia. Vi ringrazio della pazienza con cui mi avete ascoltato. Accetterò i conforti religiosi se il cappellano mi parlerà del Vangelo e di Nostro Signore Gesù Cristo, alla cui misericordia fin d’ora mi affido. Ma se pensa di parlare di re, patria e bandiera come spesso ha fatto in trincea, allora… in questo caso… preferisco morire senza vederlo. Possano i libri di storia del futuro parlare di queste giornate tremende come dell’ultima guerra combattuta dagli uomini.
Buonanotte signori”.

NOTA STORICA Mi sono preso una piccola licenza poetica per fare un omaggio ad una grandissima personalità della nostra cultura, una donna amica da giovane di Cesare Pavese e, negli ultimi anni della sua lunga vita, di Fabrizio De André. Quando l’imputato cita ai giudici alcuni versi di Edgar Lee Masters lo fa usando la traduzione di Fernanda Pivano, uscita  25 anni dopo rispetto al periodo in cui è ambientato il racconto. Non  è una mia svista, ripeto, ma una scelta consapevole.


Domenica 24 Marzo
(Enzo Jannacci)

Domenica 24 Marzo
che mi ero svegliato prima io
di fuori cantava ancora il cannone,
di dentro per me la guerra finiva.
In pochi minuti semm giamò in trincea
cominci a vusà, me par nanca vera
partito tutto un caricatore
addosso a un tenente con la sua bandiera.
Come si fa
a dirci che me s'eri stracà
a fà, a riscià la pel
per dopu purtàla a cà,
a cà
Come si fa
a dirci che non c'ho neanche vergogna
vergogna
sentìmm dì vigliacc
anca dai me cumpagn.
Domenica 24 Marzo
che mi ero svegliato prima io
per aria nanca cinq ghei di sole
conclusosi il mio avvenire.
Questa canzone è stata incisa da Enzo Jannacci 


venerdì 11 novembre 2011

Da "Ti racconto una canzone" VALSINHA


VALSINHA

Tutto è cominciato a causa di una canzone, ma non di quelle belle, impegnate che piacciono a me, no, una canzone becera, commerciale, banalissima ; una canzone di trent’anni fa.  Stamattina in ufficio si è rotta una tapparella e sono venuti due operai a sistemarla. Uno dei due, mentre lavorava ha intonato quella vecchia canzone ed io sul momento ho provato un inspiegabile senso di disagio, poi ho cominciato a pensare e mi sono quasi sentito male.
Trent’anni fa quella brutta canzone era di moda, la sentivi alla radio, alla televisione, la cantava la gente per la strada. Io mi ero sposato da pochi mesi e tutte le sere, tornando a casa dal lavoro, quando svoltavo con la macchina nel vialone alberato che porta a casa mia la intonavo e la cantavo a voce alta. Forse una sera l’avrò sentita alla radio, nel negozio in cui mi ero fermato a prendere un regalo per mia moglie, non so, sta di fatto che l’avevo cantata una volta e da allora era diventato quasi un gioco per me: ogni sera come ho detto mentre imboccavo il vialone la cantavo. Poi portavo la macchina in garage ed entravo in casa. Tutte le sere mia moglie mi correva incontro, mi abbracciava e mi baciava. Ci chiamavamo coi nomignoli più affettuosi (e magari un tantino stupidi…), ci raccontavamo la nostra giornata, se uno dei due aveva avuto un problema si sentiva consolato e dimenticava qualunque dispiacere. Qualche volta lei mi prendeva per mano e mi portava sul grande letto matrimoniale e facevamo subito l’amore una, due, tre volte, magari per scoprire che non avevamo fatto la spesa, ma non era un problema: uscivamo ed andavamo in pizzeria, oppure mangiavamo due gallette secche avanzate dalla colazione, ridendo e scherzando, giocando ad essere i sopravvissuti sull’isola deserta. Poi un po’ di televisione, ma difficilmente capivamo qualcosa del programma che stavamo guardando, perché chi dei due era meno interessato allo spettacolo cominciava a stuzzicare l’altro con bacetti sul collo o con carezze audaci… e lo spettacolo finiva lì, o meglio ne cominciava uno più interessante e privato. E poi progetti… sogni… discorsi sulle vacanze e sul futuro… le visite degli amici che ci invidiavano…

Smisi di lavorare e mi presi la testa tra le mani. Come e quando era finita questa stagione favolosa del nostro matrimonio? Non riuscivo a trovare in questi trent’anni un momento o un avvenimento che avessero creato un punto di rottura. Alcuni miei amici avevano avuto una disgrazia o un tracollo finanziario o una malattia che aveva cambiato le cose, noi no:  il nostro rapporto si era modificato poco alla volta, silenziosamente, giorno dopo giorno, senza che ce ne accorgessimo, come certe malattie asintomatiche e silenziose che scopri solo quando è troppo tardi. Io sono ancora io e lei è ancora lei, la casa, i mobili sono sempre gli stessi, solo la macchina è cambiata, ne abbiamo cambiate quattro nel corso degli anni… io lavoro sempre nello stesso ufficio: tutte le sere mi metto al volante, svolto nel vialone alberato e dopo aver messo la macchina in garage salgo in casa, già, ma come?…
Entro e butto lì un ciao che riceve una risposta altrettanto stentata. Mi siedo sul divano e comincio a sfogarmi: “stamattina c’era un traffico infame… non si viaggia più in questa città di merda… il capufficio comincia ad avere delle pretese assurde, vuol farmi lavorare anche il sabato e non mi paga gli straordinari… (e lei che pensa “certe richieste un capufficio può farle solo  a un coglione come te”) quel deficiente di Bonetti ha avuto l’aumento, solo perché lecca il culo ai capi, io che mi sbatto come una bestia non vedo un aumento dall’84… adesso poi hanno assunto dei consulenti che non solo non sanno fare il lavoro, ma rovinano il mio… mi costringono a seguire tutte le novità che arrivano dall’America, poi il lavoro non va bene e i capi se la prendono con me… e sai cosa prende un consulente? Seicento euro al mese più di me, capisci? Seicento euro per mandare a puttane il mio lavoro e farmi venire il mal di fegato.” Mia moglie mi ascolta, ma solo per cogliere il momento preciso in cui mi fermo a prendere fiato per poter attaccare lei: “stamattina è arrivata la bolletta del telefono: quattrocento euro (“saranno le telefonate che fai a quelle stronze delle tue amiche” penso tra me e me), qui non si ragiona in questa casa… e, a proposito di gente che non ragiona, se non ti decidi a sistemare quello scaffale prima o poi ci arriva sulla testa… a proposito, tuo figlio (già la parola “tuo” mi fa incazzare: si vede che l’ho fatto con la vicina di casa…) ha risposto male al Preside, sabato siamo convocati…” Certe cose che un tempo ci facevano ridere ora diventano drammi: se lei dimentica di comprare il pane a me vien voglia di buttare per aria la casa;  se io rompo un bicchiere vengo messo sotto processo…

Morale della favola: oggi in ufficio non ho combinato niente tutto il giorno. Alle quattro ho detto al capo che mi sentivo male e sono venuto a casa.
Al momento di svoltare nel viale ho intonato a voce altissima la canzone che cantavo trent’anni prima e sono entrato in casa cercando di sorridere.
“Ciao amore” le ho detto e le ho dato un lungo bacio appassionato. Lei mi ha guardato strana, indecisa se compiacersi o prendersela, ma non ha detto niente.
“Preparati che oggi usciamo”. Ho pronunciato queste parole con tenerezza, ma anche con amarezza: ci volevano un operaio mai visto prima e una vecchia canzone a raddrizzare quella pianta storta che è diventato il nostro matrimonio?
Lei non ha detto niente. E’ andata in camera ed ha cominciato a rovistare nei cassetti. Io la guardavo un po’ preoccupato, poi ho visto che ha tirato fuori una vecchia camicetta… il mio primo regalo!!! La camicetta che indossava quel pomeriggio in collina, la prima volta che abbiamo fatto l’amore… poi è andata in bagno a lavarsi e a truccarsi e quando è uscita… non l’ho mai vista così bella, neanche il giorno del matrimonio; o  forse sì, una volta, la prima volta che siamo usciti assieme.
L’ho presa per la mano (da quanti anni non ci tenevamo la mano nella mano? Avevamo paura di sembrare ridicoli?) e siamo scesi alla piazza. Cantavamo a squarciagola e la gente si fermava a guardarci. Sulla piazza, sempre cantando abbiamo accennato un passo di danza. Una vecchietta ci ha detto “ragazzi, c’è buio, ma gente come voi illumina la notte!” Avrei voluto ringraziarla per il “ragazzi”, ma doveva esserci ben buio per non vedere le nostre rughe ed i nostri capelli bianchi. Abbiamo continuato a baciarci per tutta la sera, poi siamo andati a mangiare nel ristorante dove andavamo sempre il primo anno. E’ cambiato tutto, gestione, arredamento, camerieri, menù, ma noi non ce ne siamo accorti.
Avremmo voluto appartarci e far l’amore come due ragazzini, ma non ne abbiamo avuto il coraggio.
Però siamo andati a ballare e quando siamo tornati a casa era quasi l’alba.
Mio figlio era già alzato e lavorava al computer. Da quando deve fare quella dannata tesina non si dà pace, è sempre su Internet a cercare materiale.
Non dico che fossimo ubriachi, ma un po’ su di giri sì ed avevamo una gran fame. Siamo andati in cucina e ci siamo fatti una spaghettata: aglio, olio e peperoncino.
Lui ci ha guardati ed ha sorriso.
“Bella papi, batti un cinque!”
Ha sorriso di nuovo ed ha scosso la testa.
“E poi dicono di me…”


Valsinha
(Chico Barque de Hollanda)
Um dia ele chegou tão diferente do seu jeito de sempre chegar
Olhou-a dum jeito muito mais quente do que sempre costumava olhar
E não maldisse a vida tanto quanto era seu jeito de sempre falar
E nem deixou-a só num canto, pra seu grande espanto convidou-a pra rodar Então ela se fez bonita com há muito tempo não queria ousar
Com seu vestido decotado cheirando a guardado de tanto esperar
Depois o dois deram-se os braços com há muito tempo não se usava dar
E cheios de ternura e graça foram para a praça e começaram a se abraçar E ali dançaram tanta dança que a vizinhanca toda despertou
E foi tanta felicidade que toda cidade enfim se iluminou
E foram tantos beijos loucos
Tantos gritos roucos como não se ouvia mais
Que o mundo compreendeue o dia amanheceu em paz.



 
Valsinha
(traduzione di Sergio Bardotti)


Quel giorno a casa lui tornò più presto come non faceva quasi più
 e la guardò in un modo ben diverso come non faceva quasi più.
E non parlò dei soldi e dell’aumento, unico argomento dei discorsi suoi.
Con una strana tenerezza e un poco di amarezza disse “Andiamo fuori vuoi?”.
E allora lei si fece bella come il giorno che di lui si innamorò.
Cercò nel fondo di un cassetto quella camicetta che le regalò.
E lui la tenne per la mano come la teneva tanto tempo fa.
Come un ragazzo e una ragazza scesero alla piazza e incominciarono a ballar.
E al suono della loro danza il vicinato addormentato si affacciò
e scese nella piazza scura e molta gente giura che s’illuminò.
E furono baci rubati e gridi soffocati che nessuno soffocò.
Che il mondo fece suoi, in pace l’alba poi spuntò.

Questa canzone è stata incisa in portoghese da Chico Barque de Hollanda e in italiano da Mia Martini.



venerdì 4 novembre 2011

Da Ti racconto una canzone LA GITA


LA GITA

E’ una vita che mi diverto a prendere in giro quelli che programmano a tavolino una conquista: domenica la incontro… le dico così… lei dice cosà… e allora io.. e allora lei… ecc. ecc. eppure una volta ci sono cascato anch’io in questa situazione che chissà perché fa così tanto ridere quando succede agli altri. Ma come nel feuilleton ottocentesco dobbiamo prima fare un passo indietro.  Era la mia ultima estate da studente ed avevo deciso di dedicarla per intero al movimento giovanile di cui ero responsabile regionale… Mi offrii di dirigere non uno, ma tre campi di lavoro: uno a Sarnico, sul confine tra le province di Bergamo e Brescia, uno a Palazzolo sull’Oglio (sempre in zona) ed uno a Pieve di Stadera, sull’Appennino pavese ad un passo dall’Emilia. Solo che al primo di questi tre campi di lavoro mi ero preso una cotta fulminea per una diciassettenne rossa, lentigginosa, timidissima che abitava in un paesino a casa di Dio, dal nome impronunciabile come uno scioglilingua, dalle parti di Lecco.  All’epoca ero abituato che quando mi prendevo una cotta e la ragazza lo capiva, arrivava immediatamente il due di picche, lo incassavo rassegnato e buonanotte. Questa tipa invece tirò fuori tutto il ricco armamentario ben noto alle ragazze quando vogliono dire di no: “la tua corte mi lusinga, ma tu meriti ben altro… capiti nel momento sbagliato… ti ammiro troppo… siamo così diversi…tu abiti in città, io in un paesino di montagna (scoprii molti anni dopo che questo suo paese era in bassa collina, quasi in pianura…) ma una minima porta aperta la lasciava sempre. Per tutto settembre le fissai degli appuntamenti che lei accettava. Ci vedevamo a Lecco alla stazione. Prendevamo un caffè poi io le prendevo la mano e cominciavamo a camminare costeggiando il lago, fino a Malgrate, lì facevamo dietro front e tornavamo alla stazione di Lecco. Io parlavo, parlavo, lei rispondeva sempre in maniera evasiva, poi un casto bacetto sulla guancia e arrivederci al prossimo appuntamento. Una sera, mentre tornavo a casa mi venne in mente che forse, ricreando il clima favoloso del campo di lavoro, sarei riuscito a far crollare quel muro di diffidenza che ogni volta mi sembrava sul punto di sgretolarsi ed ogni volta rimaneva in piedi. Proposi a tutti i reduci dal campo una gita per ritrovarci una domenica a Sarnico e rievocare insieme ai ragazzi del posto che  ci avevano fornito il supporto logistico la bella avventura estiva. Tutti accettarono con entusiasmo, anche lei. Io dissi a me stesso “da domenica non ci saranno più appuntamenti interlocutori alla stazione di Lecco. Io parlerò chiaro, ma  le chiederò di mettere le carte in tavola una volta per tutte: O sì o no.  Ma dentro di me ero certo che sarebbe stato un sì. Lo sentivo.
La sera prima ero emozionato come una collegiale; non riuscivo a prendere sonno e la cosa mi irritava al punto che mi sarei preso a schiaffi. “E che sarà mai -dicevo a me stesso- vai a una gita, la vedi, le dici di decidersi. Cosa sono questi atteggiamenti da ragazzina romantica… proprio tu che hai sempre sghignazzato di queste cose”. Mi addormentai tardissimo e la mattina non sentii la sveglia.
Mi riscosse dal sonno una scampanellata al citofono che svegliò probabilmente non solo me ma tutto lo stabile.
“Siamo noi” disse Marietto, l’altro responsabile del campo che passava a prendermi in macchina.
“Siamo?” mi chiesi, mentre tirando una sfilza di madonne mi precipitavo in bagno- “perché usa il plurale?” Mi lavai di premura ed ovviamente mi tagliai tre volte nel farmi la barba. Mia mamma, che pure era abituata al mio linguaggio non certo da educanda, senza alzarsi dal letto mi urlò di smetterla  e mi chiese se non mi vergognavo a dire tutte quelle parolacce.
Quando scesi in strada capii perché Marietto aveva detto “siamo”. Con lui c’era uno dei miei più cari amici, Ermanno che aveva portato con sé la sorella. Gran bella ragazza la Elena: castana, occhi verdi, un’aria acerba da adolescente nonostante i suoi vent’anni. Il tipo di ragazza che in un altro momento avrebbe probabilmente suscitato il mio interesse, ma… decisamente non capitava nel momento giusto. L’avevo già notata un paio di volte durante l’estate (avevamo fatto una breve vacanza al mare assieme ed una volta ero stato a mangiare a casa sua), ma nella prima occasione io ero troppo assorbito dalle mie paturnie sentimentali e troppo indaffarato a mettere pace tra Ermanno e la sua ragazza; nella seconda lei era troppo concentrata a preparare il pesce prima, a difenderlo poi dall’assalto di una decina di gatti. Durante la cena infine ero stato preso in ostaggio dal suo fratellino dodicenne che voleva sapere mille cose sui papi del Duecento (meno male che avevo appena dato l’esame di storia medievale…), quindi i nostri rapporti erano rimasti estremamente formali.

Il viaggio mi parve interminabile, non avevo preso il caffè, cosa per me inconcepibile, avevo sonno, ero agitatissimo, e sia Ermanno sia Marietto non perdevano occasione per punzecchiarmi.
“Allora oggi assistiamo alla grande conquista eh?”  diceva Marietto.
“Sì, oggi vediamo il Silvano in versione Casanova” rincarava Ermanno.
Grazie a Dio almeno Elena, che, come ebbi modo di appurare nel corso degli anni, soffriva di mal d’auto, rimaneva in silenzio. Non saprei dire cosa io abbia risposto, ma credo nulla di intelligente.

Quando arrivammo a Sarnico fu tutto un salutarsi, abbracciarsi, baciarsi; un campo di lavoro, come uno spettacolo teatrale, crea un affiatamento, un’amicizia, un legame fantastico. Anche la ragazzina dai capelli rossi venne verso di me, rigida come se avesse ingoiato una scopa,  evitò con destrezza il mio abbraccio, mi porse la mano con un gesto da avvocato cinquantenne, poi disse “Ciao Silvano” e via a baciare ed abbracciare tutti gli altri.
Rimasi un attimo disorientato, ma non ebbi tempo di elaborare pensieri di nessun tipo, perché un gigante del posto mi sollevò da terra e mi depositò di peso su una sedia.
“Eh no caro Silvano, basta sbaciucchiare ragazzine. E’ da luglio che vogliamo sentire le tue canzoni”.
“Sì, si le canzoni!” gridarono i campisti sedendosi in terra a cerchio attorno alla mia sedia.

                               “In una strada un uomo solo
                                  cammina triste senza una meta…”

con la coda dell’occhio mi accorsi che lì attorno a me c’ erano proprio tutti. Solo la ragazzina dai capelli rossi mi voltava le spalle e guardava il lago con aria annoiata.

I ragazzi di Sarnico ci avevano preparato un pranzo eccellente. A me capitava spesso da ragazzo (oddio mi capita ancora adesso, anche se meno di frequente…) di volermi sedere a tavola vicino a una certa persona, ma di non sapere come fare. Forse conoscendo questo tipo di problema il mio amico Franco, quando facciamo la rimpatriata tra compagni di liceo, assegna i posti col classico sistema dei bigliettini e devo dire che di solito mi legge nel pensiero (o forse, dopo quarantun anni mi conosce fin troppo bene…) Ma in mancanza di bigliettini bisogna studiare un’altra strategia; allora si finge indifferenza, si prende l’aperitivo o uno stuzzichino cercando di non perdere di vista la persona in questione, poi senza dare troppo nell’occhio, quando lei accenna a sedersi ci si butta e, come per caso, ci si siede accanto a lei. Inutile dire che molte volte il gioco non riesce e uno rischia di finire vicino a gente che neppure conosce o peggio ancora, a gente che non gradisce. Beh quella volta devo dire che Marietto ed Ermanno fecero un vero e proprio “gioco di squadra” ed io mi ritrovai seduto accanto alla ragazzina dai capelli rossi.  Credo di aver cercato di attaccare discorso su almeno mille argomenti, dai più futili ai più raffinati, ma lei buttava lì un “sì” o un “no” o un “ma va!”o un “ah sì?” e poi riprendeva a mangiare in silenzio. Di fronte a me Ermanno e Marietto mi osservavano con aria beffarda, curiosi di vedere come sarebbe andata a finire. Se non mi alzai da tavola con un travaso di bile lo devo alla Elena che si dimostrò una conversatrice acuta e spiritosa, davvero una persona gradevolissima, oltre che una gran bella ragazza, ma come dice un verso di Edgar Lee Masters: “i nostri cuori rispondono a stelle che non vogliono saperne di noi”. Mentre prendevamo il caffè Marietto ebbe la spudoratezza di chiedermi se tutto procedeva secondo i miei piani. “Mi sa che c’è poco da fare” gli dissi e non volli accorgermi del ghigno divertito e sadico che gli balenò negli occhi.

Cominciavo ad averne piene le scatole di quella giornata. Mi ero pentito di aver organizzato questa gita, anzi mi stramaledicevo per questo e stavo pensando a qualche pretesto per potermene stare un po’ in pace, ma né i campisti né i ragazzi di Sarnico erano di questo parere.
“Ragazzi, vi ricordate di quando andavamo la sera sul lago a fare gli scemi?… che risate ci facevamo, a vedere la faccia della gente. Silvano, come faceva quella canzone che cantavamo la sera?”
Senza neanche accorgermi mi trovai sul lungolago seguito da un codazzo di gente allegra, festante, piena di voglia di divertirsi.
La ragazzina dai capelli rossi mi ignorava ostentatamente.
Dài Silvano attacca quella degli angioletti”
“No, scusate non ne ho voglia”
“Pota, Silvano, non farti pregare, la intonavi sempre tu, noi non ce la ricordiamo”
“Ecco: sto male, ma ho un fama di allegrone da difendere –pensai-. Vediamo se riesco a fare il pirla anche controvoglia” imposi a me stesso.

                          Cantiamo tutti in  coro la canzone degli angioletti
                           che scesero dal cielo per fare la pipì¸
                           han visto Sophia Loren, la Lollo e la BB
                           e si dimenticarono di fare la pipì…
                            popom popom   popom   popom popom popom…
                            popom popom   popom   popom popom popom…

ma il giochetto che tanto mi divertiva nelle sere d’estate stavolta mi sembrava una vaccata tremenda. 
Ad un certo punto mi accorsi che ero sul punto di esplodere e non mi sembrava il caso. Erano pur sempre degli amici ed io rappresentavo il movimento. Mollai tutti ed andai a sedermi su una panchina. Guardai l’orologio e fui sul punto di bestemmiare. “Ma oggi non viene mai sera ???”
Elena si sedette vicino a me e mi prese la mano con naturalezza.
“Su, non fare così, non mi sembra il caso. Vieni che raggiungiamo gli altri. Ti capisco sai? Sono cose che succedono.”
Camminammo in silenzio fino all’ora del ritorno.

Di nuovo un’orgia di saluti, baci, abbracci… solo un piccolo gruppetto di persone tra cui la ragazzina dai capelli rossi si era già avviato verso la stazione.
Le oltrepassammo in macchina.
“Marietto, per favore, fermati, voglio salutarla per l’ultima volta” dissi.
Marietto sorrise e frenò.
“Mandala a cagare” mi suggerì Ermanno.
Scesi dall’auto e come la mattina mi beccai un saluto secco, freddo, formale.
Ermanno scese dalla macchina “Andiamo, va’ che è meglio. Oh ragazzi, mi fate stare davanti?”
Elena (l’ultimo riflesso del sole sul lago batteva sui suoi occhi ed io mi accorsi in quel momento di quanto fosse  affascinante coi suoi capelli castani e gli occhi verdi) prese posto dietro ed io sedetti vicino a lei.
“Senti –le dissi- io per il ponte di S.Ambrogio vado quattro giorni sull’Appennino coi miei amici. Vuoi venire anche tu?”
“Credo di sì, non so, devo vedere.” rispose sorridendo, ma in quel momento per me era come se avesse pagato la prenotazione.
Ermanno mi strizzò l’occhio. “Grazie per il posto, Silvano. E poi si sta bene anche dietro, vedrai”.
“Giudizio sulla gita?” disse Marietto mettendo in moto.
“Splendida!!!” risposi e scoppiammo a ridere tutti e quattro.





La gita

(Silvano Maino)


Hai riso per anni di quelle persone

che aspettano un giorno con grande emozione

e puntano tutte le carte che hanno
sulle poche ore in cui la vedranno.
Finché sono gli altri ci ridi e ci scherzi,
adesso, che bello, sei tu che l’aspetti
e sei lì che conti i minuti e già sai
che oggi è domenica… e tu la vedrai.
Ti svegli in ritardo e ciò non ti garba,
ti tagli tre volte nel farti la barba,
gli amici han suonato, è tempo di andare,
un’ora di macchina senza parlare;
hai l’aria un po’ strana e ancora assonnata,
 gli amici ti lanciano qualche frecciata,
rispondi distratto qualcosa di vago:
vorresti già essere in quel posto sul lago.
Arrivi e la vedi, per niente eccitata,
ti guarda e sorride con aria staccata,
poi resta in disparte a parlare con gli altri,
 ti senti osservato da tutti gli sguardi.
Un sacco di gente ti viene a cercare,
è tanto che han voglia di farti suonare;
ti siedi e cominci la prima canzone:
ne manca una sola tra tante persone.
All’ora di pranzo le siedi vicino,
attacchi bottone, lei parla pochino
c’è poco da far ormai l’hai capito,
qualcuno ti osserva un po’ divertito.
E poi tutti al lago in mezzo alla folla
a fare casino anche se non ne hai voglia
e lei con un’aria del tutto innocente
ti snobba in maniera abbastanza evidente.
Ti metti a sedere con la faccia nera,
ti sembra che oggi non venga mai sera;
gli amici stavolta son proprio carini,
ti tengon per mano ti stanno vicini.
Le ombre si allungano, il giorno scompare,
le stringi la mano è ora di andare.
Ormai la speranza è una pianta appassita:
è stata davvero una splendida gita.


Non esistono incisioni discografiche di questa canzone. Esistono due incisioni su cassetta, una dell’autore, una di un gruppo di studentesse dell’I.T.C. Gadda di Paderno Dugnano: “Le furbe rosse e blu”.