venerdì 28 ottobre 2011

Da Ti racconto una canzone IL TEMPO SE NE VA


IL TEMPO SE NE VA



Ascolta, Tati, ti sembra il caso di uscire con quel vestito? Dove l’hai presa una roba del genere? Quando te la sei comprata? Ah te l’ha regalato la tua amica…? e te pareva, ci avrei scommesso…sì vabbè, comunque non mi sembra il caso, davvero di andare in giro conciata così. Oltretutto, e lo sai benissimo, se lo vede la mamma va su tutte le furie, e poi magari, come al solito, se la prende con me. Hai solo quattordici anni Tati… o forse dovrei dire hai già quattordici anni. E’ da un po’ che non ti vedo giocare con la Barbie, e stasera che ti guardo camminare per casa vestita in questo modo mi sto accorgendo che cammini come una donna, non come una bambina… la mia bambina. E’ strano come alle cose non ci si dia peso, poi tutto ad un tratto uno apre gli occhi e si accorge… ecco fino a poco tempo fa quando stavi al telefono con le tue amiche o con i tuoi compagni di scuola tutta la casa ti sentiva strillare; adesso chiudi la porta e se passo di lì per andare in bagno sento solo un sussurro, un filo di fiato. Mi piacerebbe farti tante domande; sapessi quante mie alunne si confidano con me,  mi raccontano anche le cose più intime, quelle che non direbbero mai ai genitori; ecco, senza volerlo ho toccato il cuore del problema: certe cose ai genitori non si dicono, ed io sono il tuo papà. So che ti vergogneresti a rispondere alle mie domande ed allora non ti chiederò niente.
Anche il tempo che passi in bagno, a guardarti, a pettinarti, a truccarti è molto di più di quello che dedicavi una volta alla cura della tua persona. Stasera ti guardo e mi tornano in mente le sere in cui ti aiutavo a compitare faticosamente le prime lettere dell’alfabeto, quando ti raccontavo le favole, quando ti portavo alla stazione a vedere passare i treni. A me sembra ieri, ma ne è passato di tempo. Vederti donna all’improvviso è una misura di come il tempo passa e se ne va. Io ne ho viste tante di bimbe diventare ragazzine poi adolescenti, poi donne e la cosa mi è sempre parsa normale. Perché sono così a disagio stasera? Perché una figlia per il suo papà è sempre qualcosa di speciale.  Lo sai, ma non voglio colpevolizzarti, solo metterti a parte di un mio piccolo segreto, che quando esci la sera e comincia a farsi tardi e tu non torni, io non riesco a dormire? Ho capito di Marco, sai? L’ho capito dalla luce che vedo nei tuoi occhi quando sul display del telefono si illumina un certo numero col prefisso 081; l’ho capito dai tuoi sbalzi d’umore, dalla cura con cui nascondi certe lettere e certi biglietti. Quello che non so, che non saprò mai è se sei felice, se lui ti fa star bene o se ti fa piangere. Nella stanza del futuro dei tuoi figli -diceva uno scrittore indiano- a te non è dato di entrare, neppure in sogno. E’ da tanto che non mi fermo in camera tua e non mi siedo sul tuo letto come una volta. Stasera lo sto facendo, ma niente è più come allora… Vedo tanta polvere sui tuoi giocattoli di cui fino a ieri eri gelosa. Sul muro Aladdin e Topo Gigio hanno lasciato il posto a giovanottoni inglesi o americani di cui non ho mai sentito il nome. Non è più tempo di giocattoli: è tempo di sogni e preoccupazioni. Sarà perché sono un padre un po’ distratto, sarà perché sono abituato a vederti in jeans, ma… non avevo mai notato che non porti più i calzettoni, ma le calze a rete. Come passa il tempo, piccolina!



Il tempo se ne va
(Toto Cotugno per Adriano Celentano)

Quel vestito da dove è sbucato, che impressione vederlo indossato
 se ti vede tua madre lo sai questa sera finiamo nei guai;
 è strano ma sei proprio tu quattordici anni o un po' di più
la tua Barbie è da un po' che non l'hai e il tuo passo è da donna ormai.
Al telefono è sempre un segreto quante cose in un filo di fiato
e vorrei domandarti chi è, ma lo so che hai vergogna di me;
la porta chiusa male e tu, lo specchio il trucco il seno in su
e tra poco la sera uscirai delle sere non dormirò mai.
E intanto il tempo se ne va e non ti senti più bambina,
si cresce in fretta alla tua età non me ne sono accorto prima
e intanto il tempo se ne va coi sogni e le preoccupazioni
le calze a rete han preso già il posto dei calzettoni.
Farsi donna è più che normale ma una figlia è una cosa speciale;
il ragazzo magari ce l'hai, qualche volta hai già pianto per lui.
La gonna un po' più corta e poi malizia in certi gesti tuoi
e tra poco la sera uscirai delle sere non dormirò mai.
E intanto il tempo se ne va e non ti senti più bambina
si cresce in fretta alla tua età, non me ne sono accorto prima
e intanto il tempo se ne va coi sogni e le preoccupazioni
le calze a rete han preso già il posto dei calzettoni.


Questa canzone è stata incisa da Adriano Celentano



venerdì 21 ottobre 2011

Da Ti racconto una canzone ADAGIO

ADAGIO


E’ bellissima questa musica, anche il locale è fantastico. Non è questo il problema. Non ti sto dicendo che non mi fa piacere essere qui stasera e lo sai benissimo. Ti sto semplicemente dicendo che è una situazione che mi mette terribilmente a disagio. Questo tavolino apparecchiato per tre:  tu… io… tua moglie… Tua  moglie non sa niente, non si è mai accorta di niente, (ma forse non ce ne siamo accorti neppure noi a dire il vero) ma torno a ripeterti che invitarmi ad uscire con voi non mi è sembrata una trovata intelligente… Non so che farci: sono a disagio. Le avrai detto, immagino che sono una tua amica, una tua collega, che ti ho fatto dei piaceri e che tu per sdebitarti mi hai invitato stasera in questo locale insieme a voi… ma abbassa la voce, ti prego, oppure è la volta che tutti capiranno di noi. Certo che mi va di ballare, che domanda, ma non così, per favore, non stringermi forte… nel buio mi sembra di vedere gli occhi di lei puntati su di noi. Non voglio che capisca che il mio cuore sta scoppiando, ed anche il tuo, immagino; soprattutto non voglio che soffra. Ormai, anche se non ce lo siamo mai detto, anche se non abbiamo mai avuto il coraggio di ammetterlo neppure con noi stessi, ormai è un dato di fatto:  io ti amo ed anche tu mi ami, ma la cosa mi fa star male,  per lei soprattutto: lei non ne ha colpa. Non è giusto che cominci a soffrire. Per favore, amore (hai notato? è la prima volta che ti chiamo con questa parola…), non complicare inutilmente le cose… non guardarmi in quel modo… e poi… il tuo respiro sul collo… lo sai benissimo che non resisto, e sai altrettanto bene che se io ti cedessi sarebbe una tragedia per tutti.

Che strano. Siamo qui chiusi in un locale, la musica sta suonando, ma io sento in lontananza una campana che batte le ore. Fuori di qui c’è il mondo…  Quella è la vita, non l’illusione di un momento che ci sta dando questo ballo. Amore, ma tu stai piangendo? Piangi piano, non farti sentire. Questo ballo volge ormai alla fine. C’è una sola cosa possibile da fare e sono certo che tu la farai: ritorna da lei.




Adagio
(Paolo Limiti)

Adagio parla piano stasera
o gli altri capiranno di noi...
balliamo, ma non stringermi ancora,
nel buio vedo gli occhi di lei...
Adagio, no, non farle capire
che il cuore scoppia dentro di noi...
non deve cominciare a soffrire,
se t'amo non è colpa di lei.
Amore non guardarmi così
non puoi guardarmi oppure non ce la farò...
Sul collo il tuo respiro ormai mi fa impazzire
ti prego non lo fare, no, o morirò! Morirò
Lontano sento battere l'ora...
il mondo è la fuori e lo sai
adagio piangi adagio
stasera nel mondo tu ritorni con lei
Amore non guardarmi così
non puoi guardarmi oppure non ce la farò...
Sul collo il tuo respiro ormai mi fa impazzire
ti prego non lo fare, no, o morirò! Morirò, morirò.

Questa canzone è stata incisa dai “Domodossola” e da Mina.





venerdì 14 ottobre 2011

Da Ti racconto una canzone IL VESTITO DI ROSSINI

IL VESTITO DI ROSSINI

 


Stamattina, quando il secondino ha detto che c’era una visita per me, avrei pensato a tutti, ma non a Gianni. Erano anni che non veniva a trovarmi il vecchio Gianni, operaio generico e mio compagno alla catena di montaggio. Mi ha detto che ieri sera è stato a casa di Giovanna che festeggiava il suo pensionamento (ha solo 49 anni, ma, poveretta, ha cominciato a lavorare a quattordici) e la licenza media del maggiore dei suoi tre figli; tra le altre cose ad un certo punto hanno parlato di me ed allora gli è venuto in mente di venirmi a trovare. Giovanna! Giovanna in pensione!! Giovanna mamma di tre bambini!!! Non l’ho mai detto a nessuno, perché è una cosa di cui mi sono sempre un po’ vergognato, ma se non avessi conosciuto Giovanna sicuramente la mia vita avrebbe avuto tutto un altro corso ed io oggi non sarei qui.
Sono entrato in fabbrica giovanissimo, ventidue-ventitré anni e la Giovanna, pur avendo pochi anni più di me era già una leader sindacale. La ricordo con l’eskimo, i jeans sdruciti, un’enorme sciarpa rossa di lana e un cappellino da sciatore in testa, della stessa stoffa e dello stesso colore; la voce roca per le troppe sigarette e l’immancabile megafono “Compagne e compagni domani sciopero generale di otto ore…” Io, anche se può sembrare paradossale pensando a ciò che mi è successo, non mi sono mai occupato di politica; mi ero iscritto al PCI cedendo alle insistenze di alcuni miei amici, ma i miei veri interessi spaziavano dal calcio alla scopa d’asse; dal bar alle corse in bicicletta lungo i viali della periferia: pochi soldi e pochissimi progetti per il futuro, ragazze manco a parlarne. Il lavoro massacrante non mi permetteva di avere nessuna di queste tre cose.
Dire che la Giovanna mi piaceva è fin riduttivo. Non era una gran bellezza, ma aveva un fascino incredibile, un’energia che nessun’altra donna possedeva. Lo confesso: mi ero preso una cotta tremenda, continuavo a pensare a lei, a casa, sul lavoro, la sera mentre giocavo a ramino con gli amici del bar, ma la vedevo lontana, irraggiungibile. Le poche volte che mi aveva rivolto la parola era stato per invitarmi ad un’assemblea, o a  firmare una petizione o a scioperare. Parlava sempre e soltanto di politica, di sindacato, di lotta, di rivoluzione, di marxismo-leninismo, schivava in maniera brusca ogni complimento, ogni battuta; se sentiva parlare di calcio, poi, si incazzava di brutto “sì bravi, pensate al Milan, così non vi accorgete che intanto il padrone vi rincoglionisce e vi sfrutta”. Qualcuno ci aveva provato con lei, ma si era ritirato in buon ordine con la coda tra le gambe.
Questo mio interesse finì per diventare un chiodo fisso e poi  un’ossessione vera e propria. Non ci dormivo più la notte; ad un certo punto arrivai a pensare (anche se oggi mi rendo conto di quanto fosse assurdo questo mio pensiero) che la Giovanna tenesse questo atteggiamento distaccato perché noi operai venivamo in fabbrica con abiti da lavoro, non eleganti come gli impiegati e i dirigenti. D’altra parte come devi vestirti quando ti svegli all’alba, sali su un treno pendolare sporco ed affollato, destinazione catena di montaggio di una grossa fabbrica di automobili della periferia? Io di vestito della festa ne avevo uno solo, ma lo tenevo per le grandi occasioni. Già, ma per un ragazzo come me, quali potevano esser le grandi occasioni?
Una mattina stavo comprando le sigarette quando mi si avvicinarono Pino, un anziano operaio specializzato che aveva fatto la Resistenza e Matteo, un sedicenne appena arrivato dal sud che Pino proteggeva come un figlio, agitati come non li avevo mai visti.
“Ehi, Rossini, hai saputo?”
“Cosa?” chiesi io con finto interesse.
“A Roma hanno rotto le trattative. Niente contratto. I padroni non ne vogliono sapere.”
“E quindi?”  chiesi io.
“E quindi sciopero generale. Ci lavorino loro nelle loro ditte di merda”.
Da lontano mi giunse la voce stentorea della Giovanna distorta dal megafono.
“Compagne e compagni. Alla rottura delle trattative voluta dal padronato rispondiamo con un grande momento di mobilitazione e di lotta. Domani sciopero generale di otto ore. E’ la nostra occasione, compagne e compagni. Facciamo pagare ai padroni il prezzo della crisi”.
La parola  “occasione”  mi rimbombò nella testa. Mi vennero in mente le parole di mia mamma quando mi aveva regalato quel bellissimo abito grigio che non indossavo mai: “Mi raccomando, non sciuparlo, tienilo per le grandi occasioni”.

La notte non riuscivo a prendere sonno.  Pensavo a quelli come Gianni, il mio vicino di posto alla catena di montaggio, a Pino, al giovanissimo Matteo che avevano degli ideali, che lottavano per le cose in cui credevano. Io quando c’era sciopero me ne stavo a letto a dormire, oppure andavo al bar. Ma a me ormai nella vita interessava solo Giovanna, nient’altro. Sapevo che era così, anche se stanotte non lo trovavo giusto. Alle cinque non avevo ancora preso sonno. Aprii l’armadio e vidi il mio abito grigio, nuovo, bellissimo. Lo indossai e provai a guardarmi allo specchio cercando di immedesimarmi in Giovanna. Immaginai che non ero io a guardare il vestito di Rossini, ma lei. Mi piacqui, mi sorrisi, mi dissi di sì. Decisi che la mattina sarei andato davanti alla fabbrica col vestito della festa.

La mattina alle sette e trenta il piazzale davanti alla ditta era strapieno di gente. C’erano gli operai di tutte le fabbriche della zona e un folto gruppo di studenti, riconoscibili in quanto più abbronzati e meno tesi rispetto agli operai. Su tutte le facce si potevano leggere non solo la determinazione di portare avanti la lotta, ma odio e furore. Stavolta i padroni l’avevano fatta grossa davvero.
La Giovanna passava instancabile da un gruppo all’altro, parlava coi ragazzi del picchetto,  organizzava il servizio d’ordine, entrava nel pulmino a mettere la cassetta da diffondere a tutto volume:

                                Noi siamo la classe operaia
                                che suda che lotta e lavora
                                 smettiam di soffrire ch’è l’ora
                                 smettiam di soffrire ch’è l’ora…

poi usciva dal pulmino e con la sua voce tonante cercava di competere col nastro diffuso dagli altoparlanti:

                                  …ladri del nostro sudore
                                  l’Italia farem comunista
                                  stronchiam la canaglia fascista
                                  sorgiamo, ch’è giunta la fin…  
                                  evviva il compagno Lenìn.


Io mi guardavo attorno frastornato, sperando che Giovanna notasse il mio vestito.

Le altre volta nei giorni di sciopero davanti alla fabbrica stazionava una camionetta della polizia con tre agenti mezzi addormentati che chiacchieravano tra loro, o guardavano le operaie che si fermavano a leggere i cartelli scritti a pennarello, ma stavolta la scena era diversa. Sessanta o settanta celerini, elmo con la visiera calata sugli occhi, scudo di plastica e manganello in mano, col mitra a tracolla, la pistola nella fondina e il tascapane da cui spuntavano i lacrimogeni.
Operai e poliziotti si fronteggiavano.
Slogan di lotta da una parte, un silenzio teso dall’altra.
Ad un tratto un gruppo di ragazzotti mai visti in precedenza e sbucati chissà da dove, con il passamontagna calato fin sugli occhi, cominciò a lanciare slogan diversi da quelli che erano echeggiati fino a quel momento.

                                    “Polizia repressione/ sei la serva del padrone!”
                                    “Polizia gran maiale/ fai la guardia al capitale”
                                     “PS SS”

“Bastardi! -disse Pino-. Quelli manco sanno cosa fossero le SS, lo vengano a dire a me che me le sono trovate davanti in montagna.
Dal gruppo dei ragazzotti cominciarono a partire sputi, monetine, poi sassi, poi qualche bullone.
“Compagni stiamo calmi, non creiamo e non accettiamo provocazioni” gridava la Giovanna.
Si levarono grida di “Venduta”, “bastarda”, “serva dei padroni” mentre non cessava la pioggia di oggetti contro gli agenti che si riparavano come potevano dietro gli scudi di plastica.
Ad un tratto Matteo lanciò un grido: “Minchia, ma quello è mio cugino Carmelo; che cazzo ci fa con gli autonomi…”
Prima che Pino potesse fermarlo Matteo si era staccato da noi ed era corso là dove partivano oggetti ed insulti contro i poliziotti.
“Matteo torna indietro!” urlava Pino.
Matteo si voltò verso di noi, fece segno di sì con la testa ed in quel momento uno degli agenti lo centrò con un colpo di pistola al petto.
Ebbe la forza di raggiungerci e cadde proprio ai miei piedi. Uno schizzo di sangue mi sporcò il vestito.
“Non sparate, porca troia!!!” gridava Pino, ma i poliziotti cominciarono a lanciare i lacrimogeni.
“Non facciamogli portar via Matteo” continuò Pino, altrimenti fanno sparire il cadavere e dicono che non ci sono state vittime”.
Poi dopo un attimo di silenzio, asciugandosi le lacrime e mettendosi il fazzoletto davanti alla bocca: “Non è possibile, cazzo, neanche i nazisti si comportavano a questo modo”.
Svelse con forza due cubetti di porfido dal pavé e me ne porse uno. Io lo presi, smarrito, ma non sapevo cosa farne.
In quel momento uno degli agenti, forse quello che aveva sparato a Matteo, si sentì male. Si strappò l’elmo e cominciò a boccheggiare, a causa dell’aria impregnata dell’odore acre dei lacrimogeni.
Pino gli lanciò un cubetto di porfido che lo colpì alla testa. L’agente cadde a terra in un lago di sangue.
In quel preciso istante il commissario portò la trombetta alla bocca. Un breve squillo e gli agenti caricarono.
“Scappa, Rossini” gridò Pino, e furono le ultime parole che sentii.
Quattro agenti mi piombarono addosso ed  una manganellata in testa mi fece perdere i sensi.
Quando rinvenni mi trovavo al commissariato di polizia in stato d’arresto.

Un brigadiere mi interrogò per più di due ore tenendomi in piedi senza mangiare né bere, poi entrò nella stanza il commissario.
Si avvicinò a me senza preamboli e mi mollò uno schiaffone in pieno viso.
“Come ti chiami?”
“Cazzo, ancora? L’ho già detto!”
Un altro schiaffone sull’altra guancia.
“Beh, me lo ripeti. Non ho capito”.
“Rossini”
“Rossini eh? Ma bene. Rosso già dal nome. Sei di Lotta Continua? O di Avanguardia Operaia? O sei uno di quei merdoni dell’emmeelle?”
“Sono iscritto al Partito Comunista, signor commissario”.
“Ti conviene confessare. Abbiamo i testimoni di quello che hai fatto. E poi il tuo vestito è sporco di sangue”.
In quel momento mi venne in mente una di quelle frasi che la Giovanna diceva alle assemblee e che a me davano i nervi (avrei tanto voluto sentirla parlare di moda, balere e vacanze come le altre operaie), ma che mi rimanevano in testa perché “suonavano bene” e che mi ripetevo con compiacimento nei momenti di solitudine.
“Signor commissario, il sangue che ho sul vestito è il sangue degli innocenti che protestavano perché finora hanno dovuto ingoiare solo ingiustizie”.
“Sei un assassino, Rossini. Oggi davanti alla fabbrica sono morte cinque persone, ed è  come se le avessi uccise tu”.
Ancora una volta mi venne in mente uno slogan della Giovanna.
“Signor commissario, gli assassini siete voi che siete al servizio degli aguzzini che ci fanno fare questa vita di merda”.
Ero stupito io stesso delle mie parole.

Il sindacato prese le distanze dal mio “gesto inqualificabile totalmente estraneo alla storia ed alle tradizioni del movimento operaio”; il PCI mi sospese dal partito. Mia madre non aveva i soldi per pagarmi l’avvocato e me ne venne assegnato uno d’ufficio che  sonnecchiò per tutta la durata del processo.
Il pubblico ministero tirò fuori un sacco di aggravanti e la corte gli diede ragione.
Mi condannarono a vent’anni di carcere. Vent’anni per una sassata ad un poliziotto.
Io ebbi un bel dire che il blocchetto di porfido lo avevo ancora in mano quando mi arrestarono, e che quindi non potevo averlo tirato all’agente, ma mi fregò il fatto che dal selciato mancavano due cubetti.
Inutile dire che Pino non fu mai indagato né si presentò a testimoniare.

In tutti questi anni mi sono posto un sacco di domande e ho capito tante cose.
Solo una domanda rimarrà per me sempre senza risposta: chissà se quel giorno Giovanna ha visto il mio vestito da festa?


Nota: Quando ho scritto questo racconto non sapevo che un cittadino comune (che non sia un deputato o un magistrato) può fare visita ad un carcerato solo su richiesta scritta di quest’ultimo, quindi la visita a sorpresa che abbiamo visto tante volte nel cinema francese o americano in Italia non è possibile; ma la storia è nata così, quindi non penso di modificare l’incipit del racconto.


Il vestito di Rossini
(Paolo Pietrangeli)

«Come ti chiami?» «Ve l'ho già detto»
«Ripeti ancora non ho capito»
«Sono Rossini iscritto al Partito
sor commissario mi conoscete».
«Confessa allora tu l'hai colpito
non mi costringere a farti del male
tu sai benissimo conosco dei mezzi
che anche le tombe fanno parlare».
«Sor commissario i vostri mezzi
sono tre ore che li sopporto
e se volete vedermi morto
continuate pure così».
Aveva solo un vestito da festa
se lo metteva alle grandi occasioni
a lui gli dissero «Domani ai padroni
gliela faremo faremo pagar».
E l'indomani quand'era già l'alba
aprì l'armadio e il vestito si mise
guardò allo specchio la faccia sorrise
guardò allo specchio e si disse di sì.
Andò alla fabbrica ed erano in mille
tutti gridavano l'odio e il furore
forse Giovanna il vestito vedeva
in quella folla fra tanto colore.
«Ti han visto tutti tu sei finito
c'è anche del sangue sul tuo vestito
quei cinque uomini che sono morti
sulla coscienza li hai anche tu».
«Sor commissario voi lo sapete
quali che sono i veri assassini
quelli al servizio degli aguzzini
che questa vita ci fanno far.
E questo sangue che ho sul vestito
è solo sangue degli innocenti
che protestavano perché tra i denti
solo ingiustizia hanno ingoiato».
Aveva solo un vestito da festa
se lo metteva alle grandi occasioni
a lui gli dissero «Domani ai padroni
gliela faremo faremo pagar».
Ma l'hanno visto con un sasso in mano
che difendeva un ragazzo già morto
ma quel che conta è che a uno di loro
un sampietrino la testa sfasciò.
E ha scontato vent'anni in prigione
perché un gendarme s'è rotto la testa
ormai Giovanna ha tre figli è in pensione
chissà se ha visto il vestito da festa.

Questa canzone è stata incisa da Paolo Pietrangeli  


venerdì 7 ottobre 2011

Da Ti racconto una canzone IN MORTE DI S.F.

IN MORTE DI  S.F.


Ciao, Susanna, anzi ciao Susy, come ti piaceva essere chiamata da noi amici… Mi sembra così strano scriverti una lettera anziché telefonarti o parlarti di persona, ma purtroppo le cose sono andate nella maniera atroce che sappiamo, anche se io non riesco ancora a rassegnarmi, anzi non riesco proprio a crederci. Mi sembra ieri che abbiamo preso quel caffè in centro. Ti guardavo mentre mi parlavi del tuo ragazzo, delle vacanze in Grecia, di tanti sogni e di tanti progetti… Parlavi così in fretta che ti mangiavi le parole, chissà perché, gesticolavi, eri agitata, rossa in viso per il piacere e l’entusiasmo di questa estate tutta da assaporare. Confesso che ti ho invidiato ed ho invidiato anche lui che ha saputo infonderti tanta voglia di vivere. Ho scritto “vivere”! Che brutta parola da usare con te. Conservo l’ultimo sms che ti ho mandato la sera prima “buone vacanze, carissima!. Un bacione a te e un saluto ad Andrea. tvb. Francesco” e la tua risposta “Grazie, sei un tesoro” tvb.
Quella mattina  continuavo a pensarti.  Ti immaginavo al volante, sicura, decisa, piena di vita come sempre. Non ho mai dubitato che ci fossi tu al volante. Nelle nostre scorribande da buoni amici non mi hai mai permesso di guidare, ho sempre pensato che la stessa cosa l’ avresti fatta col tuo ragazzo e lui, per amore, non ti avrebbe detto di no. Del resto, Susy, chi poteva dire di no a te, quando chiedevi qualcosa coi tuoi occhi volitivi ed ironici?  Io ero a casa quella mattina e mentre facevo colazione, con la mente immaginavo la scena: l’autostrada lunga, diritta, un tantino monotona almeno fino a Bologna;  la radio a tutto volume che diffondeva “Ruby Tuesday” e tu che le cantavi sopra; una bella accelerata e la canzone del motore si sovrapponeva alla tua voce e a quella degli Stones; Andrea sorridente e felice al tuo fianco.
Ogni volta che siamo andati in gita assieme mi ha sempre divertito la domanda che eri solita pormi mentre preparavamo i panini e le bibite: chi incontreremo oggi? Io non rispondevo e tu fantasticavi… un vecchio amico… o un’anziana signora che ci racconterà di quando Mussolini venne a visitare questa vallata… o, chissà, il grande amore della mia vita… e io che ti prendevo in  giro e ti chiamavo “romanticona”…  e ti dicevo “ma sono io il grande amore della tua vita” e giù a ridere tutti e due, tanto lo sapevamo che quando si è troppo amici, quasi fratelli non ci si può innamorare l’uno dell’altra…
 Sicuramente quel giorno, partendo per le vacanze estive hai posto la stessa domanda ad Andrea, magari avete fatto qualche ipotesi, ma né tu né lui avete neppure lontanamente pensato a chi avreste poi incontrato veramente. Alla tua età, alla nostra età, non ci si pensa. Ricordi quando a scuola leggevamo Leopardi o Masters o Foscolo, sempre così inclini a pensare alla morte? Non ce lo siamo mai detti ma lo abbiamo pensato di sicuro, almeno una volta: noi non moriremo mai. La morte è qualcosa per i vecchi, se proprio dovrà arrivare sarà tra cinquanta o sessant’anni… E invece…
Alla televisione ho visto l’immagine della tua macchina. Mi ha colpito il silenzio che regnava tra le lamiere contorte. E pensare che tu che il silenzio l’hai sempre odiato… amavi il rumore, la confusione, perché amavi la vita… chissà che fine ha fatto quella cassetta dei Rolling Stones che portavi sempre con te…
E mi sorprendo a ricordare un’altra cosa: quante volte davanti ad una notizia del telegiornale o a una vittoria dell’Inter o a una battuta infelice di qualcuno mi sono sorpreso a domandarmi “chissà cosa penserebbe la Susy in questo momento…” Ecco. Nell’apprendere la notizia mi sono chiesto cos’hai pensato nel momento in cui la strada all’improvviso si è come impennata, quando la tua macchina è decollata come fosse un aereo, prima di schiantarsi su un’auto in corsa nell’altra corsia.
Non sono venuto a vederti. E’ stata una scelta. Ho scelto di ricordarti come ti ho vista l’ultima volta: serena, entusiasta, innamorata del tuo ragazzo, ma soprattutto della vita. Sai una cosa, Susy?  mi piacerebbe pensare che in questo momento mi stai ascoltando.
Qualche volta, quando sarò solo e  nessuno mi sentirà, dirò a voce alta una di quelle battute o di quei giochi di parole che ti piacevano tanto.
Chissà che non riesca ancora, là dove sei, a strapparti un sorriso.



In morte di S.F.
(Francesco Guccini)


 Lunga e diritta correva la strada, l'auto veloce correva
la dolce estate era già cominciata vicino lui sorrideva, vicino lui sorrideva...
Forte la mano teneva il volante, forte il motore cantava,
non lo sapevi che c'era la morte quel giorno che ti aspettava, quel giorno che ti aspettava...
Non lo sapevi che c'era la morte, quando si è giovani è strano
poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano, venga e ci prenda per mano...
Non lo sapevi, ma cosa hai sentito quando la strada è impazzita,
quando la macchina è uscita di lato e sopra un'altra è finita, e sopra un'altra è finita...
Non lo sapevi, ma cosa hai pensato quando lo schianto ti ha uccisa,
quando anche il cielo di sopra è crollato, quando la vita è fuggita, quando la vita è fuggita...
Dopo il silenzio soltanto è regnato tra le lamiere contorte:
sull'autostrada cercavi la vita, ma ti ha incontrato la morte, ma ti ha incontrato la morte...
Vorrei sapere a che cosa è servito vivere, amare, soffrire,
spendere tutti i tuoi giorni passati se così presto hai dovuto partire, se presto hai dovuto partire...
Voglio però ricordarti com'eri, pensare che ancora vivi,
voglio pensare che ancora mi ascolti e che come allora sorridi e che come allora
sorridi...

Questa canzone è stata incisa da Francesco Guccini e, col titolo “Canzone per un’amica”, dai Nomadi.




sabato 1 ottobre 2011

LA LEGGENDA DI OLAF


Per tutti, da anni, sono “il barbone della foresta di Beaulieu”. Da questo bosco  passano mercanti e pellegrini e, qualche volta i Crociati diretti in Terrasanta e quando passano i Crociati per me è  il momento peggiore. Quando vedo armature, cavalli e cavalieri mi copro il viso per non guardare e la bocca perché nessuno senta i miei singhiozzi. Qualcuno mi insulta, qualcuno allunga il passo quando mi vede steso sul mio letto di foglie, qualcuno finge di non vedermi; ma c’è anche chi si ferma e mi offre un pezzo di pane e formaggio, un frutto, un abito di lana smesso… Quando un passante impietosito dal mio stato  o solo curioso mi chiede il mio nome dico Jean o Marc, o Jacques o la prima cosa che mi viene in mente… a qualcuno ho detto che il mio nome l’ho dimenticato…ed in parte questo è vero.

Se dicessi che mi chiamo Olaf e che ho salvato il re e la Francia sgominando quasi da solo i nemici nella celebre battaglia di Rocroi tutti riderebbero di me e mi darebbero del pazzo. Io stesso, a volte, non credo al mio passato… forse l’ho sognato, forse l’ho vissuto sì, ma qui nella foresta, dopo aver mangiato uno di quei funghi che non sono né buoni né velenosi, ma che fanno sognare incantesimi e stregonerie… forse in questo bosco ci sono sempre vissuto… forse mi ci hanno abbandonato da bambino come nelle favole che sentivo raccontare al castello… perché in un castello ho trascorso la mia infanzia e questo non posso averlo sognato…ma ormai sono vecchio, il freddo, la fame, la solitudine stanno dando un aiuto formidabile all’età… non vedrò spuntare le nuove foglie e i nuovi fiori di una nuova primavera, né sentirò più cantare gli uccellini, come dice quella bella canzone che ho sentito cantare da bambino; la cantava un trovatore nel castello di mio padre; però prima di morire voglio narrarti, sconosciuto viandante e amico che ti sei fermato impietosito a guardare questo vecchio, la mia storia, anche se dubito  che tu mi crederai.


La mia famiglia è una delle più nobili di questa regione e mio padre era vassallo del re. Ottenne il feudo come ricompensa per una missione che aveva compiuto nei freddi paesi del nord da dove si dice provengano i nostri vicini, quei Normanni che non riescono ad affrancarsi dalla prepotente signoria degli inglesi.

A questo lungo viaggio di mio padre devo il mio bizzarro nome, mai sentito in queste contrade: Olaf; sempre a mio padre devo la grande fortuna della mia vita (anche se poi è divenuta la mia disgrazia): a diciotto anni sono entrato come cavaliere alla corte del nostro sovrano.
Fu lì che conobbi la regina Eleonora, la donna più bella ed affascinante del mondo come cantano i trovatori… ma io che l’ho conosciuta di persona posso dire che tutte le ballate provenzali messe assieme non riescono ad esprimere la decima parte del fascino della dolce signora.
Eh caro amico tu non puoi immaginare la mia vita dai diciotto ai ventidue anni: assalti, duelli, battaglie… a Rocroi io da solo misi in fuga i nemici del re, e tornai ferito all’accampamento… poi cacce, marce sotto il sole o sotto la neve… la crociata… e sempre nella mente la mia regina. Quante volte ho sognato di corteggiarla e che lei accettasse la mia corte e che… ma poi mi risvegliavo e rivedevo la triste realtà, io vincolato al giuramento feudale e lei regina e moglie del mio sovrano. E allora mi prefissi un obiettivo: mai avrebbe dovuto neppure sospettare che io l’amavo.
Ma arriviamo a quel maledetto giorno in cui la mia vita cambiò in maniera radicale il suo corso.
Era un giovedì ed il re si apprestava a partire per la gran caccia… non ti dico l’eccitazione e il movimento nel castello. Anch’io già pregustavo quello che era il momento più bello e più divertente dell’anno, quando il re, senza bussare entrò nella mia stanza. Non ebbi neanche il tempo di inginocchiarmi che già mi aveva abbracciato.
“State comodo, Olaf, devo parlarvi da amico, non da re”.
“Dite Maestà” dissi con una certa inquietudine.
“Voi sapete Olaf che io non mi fido di nessuno se non di voi. Voi siete il mio unico amico in questo nido di vipere”.
“Voi mi confondete, Maestà”
“Olaf, non mi interrompete e statemi a sentire. Io conosco voi, la vostra fedeltà alla corona e la vostra devozione alla regina Eleonora”.
A queste parole cominciai ad agitarmi. Che il re mi avesse letto nel pensiero? Che mi fossi tradito, non certo con una parola, di questo ne ero sicuro, ma con uno sguardo, un tremore, un rossore?
Il re continuò.
“Olaf, voi non verrete alla gran caccia. Resterete al castello e veglierete sulla regina.
“Ma, Maestà…”
“E’ un ordine, Olaf. Ma è anche una richiesta di un amico, di un uomo solo che non ha che voi… voi siete l’unico qui dentro che prendete sul serio la sacra formula del vassallaggio che avete pronunciato in ginocchio, davanti a me, durante la cerimonia dell’infeudazione. Solo con voi qui a palazzo la regina è al sicuro”.
Stavo per rispondere, ma il re se n’era già andato.

Scese la sera e l’oscurità avvolse il castello. Dissi a me stesso: “che scherzi fa la suggestione… manca il re e mancano una dozzina di cavalieri e tutto il castello mi sembra deserto”. Ma poi mi accorsi che davvero non c’era nessuno, in nessuna stanza, in cucina, nelle armerie, nemmeno… salii le scale con la spada in pugno e nel grande salone delle feste mi trovai di fronte la regina Eleonora, con uno splendido abito verde e, cosa mai vista prima, i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle.
Olaf, caro, siediti” mi disse, mentre io non sapevo cosa pensare del fatto che mi stava dando del tu… di quell’aggettivo inusuale sulla bocca di una sovrana… di quei capelli sciolti come nessun mortale, se non il re, li aveva mai visti.
Poi aggiunse “vieni qui. Ti piacciono i miei capelli? Vorrei che tu me li accarezzassi. Sono belli vero i miei capelli?  Ma mai quanto i tuoi occhi grigi. Nessuno ha gli occhi belli come i tuoi, dolce Olaf”.
Mi sentii mancare.
La situazione, le parole che quasi ogni notte avevo sognato da anni ed anni… ma all’improvviso mi venne in mente chi ero io e chi era lei e, soprattutto, cosa avevo giurato anni prima nella chiesa di Saint Denis, inginocchiato davanti al mio sovrano.
“Madonna –le dissi con voce ferma nonostante l’emozione, ma penso che san Michele mi sostenesse in quel momento con la sua spada di fiamme-io sono un cavaliere, non tradirò mai il mio re”.
“Sciocco di un Olaf, lo so che hai paura delle male lingue, ma guardati attorno, il castello stasera è deserto, non ci siamo che tu ed io… sono bastati due buoi arrosto, cinque brente di vino e una dozzina di sgualdrinelle fatte venire dalla città e tutti i servitori, le sentinelle, i cavalieri sono al borgo a fare una gran festa. Siamo tu ed io da soli. Come Adamo ed Eva nel paradiso terrestre…”
“Madonna -ribattei con voce ferma- chiedetemi tutto quello che volete, anche di dare la vita per voi, ma non chiedetemi di tradire il re. Io sono un cavaliere”.
“Come volete, Olaf” rispose freddamente. Potete ritirarvi. Qui nessuno ha bisogno di voi, men che meno la regina”.
Andai nella mia stanza e piansi per tutta la notte.
Per tre giorni la regina non uscì dai suoi appartamenti. Si faceva servire i pasti in camera ed aveva ordinato che nessuno potesse sostare davanti alla stanza, nemmeno io. Mi limitai dunque a sorvegliar discretamente, da lontano, che nessun estraneo si avvicinasse all’ala del castello dove erano ubicate le stanze dei sovrani.
La domenica mattina uno squillo di tromba accolse il ritorno del re. Cavalieri, paggi, tutti coloro che non erano partiti per la gran caccia erano schierati sul piazzale proprio di fronte al ponte levatoio che venne abbassato con un forte stridore di catene.
In quel momento la regina Eleonora uscì dai suoi appartamenti come nessuno l’aveva mai vista: pallida, scalza, i capelli sciolti, ma scomposti e non curati, vestita con un rozzo abito di panno grigio sottratto credo a qualche serva. Mi passò davanti senza guardarmi e mi accorsi solo allora che le sue guance sanguinavano: se le era graffiate con le sue lunghe unghie, affilate come spade d’Inghilterra.

“Ah sire, sire –gridò gettandosi ai piedi del marito- non mi lasciate più sola, ve ne prego. Proprio qui nel vostro castello ed in vostra assenza la vostra sposa ha subito un oltraggio inenarrabile…”
Al re passò immediatamente il buonumore. Le splendide giornate di caccia, una caccia fruttuosa, il ritorno al castello… tutto svanì dalla sua mente e non ebbe orecchie ed occhi se non per la moglie.
Era profondamente turbato.
“Ditemi cosa è successo, dolce Madonna ed io vi prometto che non rimarrà impunita l’offesa recata alla mia sposa”.
“Ah sire, sire –continuò la regina singhiozzando- il vostro paladino, il solo uomo di cui voi vi fidate, il cavaliere Olaf, mi ha fatto proposte che non oserei riferire nemmeno al confessore, nonché a voi, mio sposo e mio sovrano.
Io ero lì in  piedi, immobile e non credevo alle mie orecchie.
“Cavaliere Olaf  -mi disse il re- avete sentito cosa ha detto la regina? Nei sacri libri della cavalleria sta scritto che le donne ed i cavalieri non possono mentire. Ho appena sentito le parole della regina ed ora voglio sentire le vostre”.
In una frazione di secondo feci tra me un lungo ragionamento. Se avessi detto la verità avrei dato della bugiarda alla regina, avrei costretto qualche cavaliere a prendere le sue difese sfidandomi a duello, e, dato che nessuno all’epoca poteva competere con me né con la spada né con la lancia, lo avrei certamente ucciso. Già, ma la sua morte avrebbe privato il regno di un uomo valoroso… inoltre il giudizio di Dio avrebbe confermato la menzogna della regina… della donna che amavo e che avrei continuato ad amare.
Chinai la testa.
“Ciò che dice la regina è vero, o mio sovrano. Chiedo perdono a voi ed a lei per un attimo di debolezza, giustificato, se posso osare, Maestà, dalla sua stupenda bellezza”.
“Messer Olaf  -disse il re- e vi chiamo messere, come quegli stupidi che lasciano le ville e vanno a vivere nei borghi, pensando di arricchirsi comperando e vendendo, lavoro da schiavi e da donnicciole, quando il Signore Iddio ha stabilito nella sua infinita sapienza che tre soltanto sono le attività a cui un uomo libero può degnamente dedicarsi: la guerra, la vita religiosa e l’agricoltura. Vi chiamo messere perché vi siete comportato da borghese, non da cavaliere… messer Olaf, per il gesto che voi avete compiuto l’unica pena possibile è la morte”. Sospirò brevemente, poi soggiunse: “Ma io non posso dimenticare che se oggi io sono qui, se lo scettro è nelle mie mani è perché nella battaglia di Rocroi voi rischiaste la vita per salvare il re e la patria. Vi debbo eterna gratitudine. Prendete il vostro cavallo ed un otre di acqua fresca ed andatevene via dal mio feudo. Via, ho detto.  Il più lontano possibile”.

Galoppai tutto il giorno, incurante del fatto che due cavalieri senza insegne mi seguivano. Decisi di ignorarli. La notte mi trovai solo sotto le stelle e cominciai a riflettere.

La regina si era impegnata al massimo per raggiungere il suo obiettivo.. i buoi… il vino tenuto gelosamente in serbo per le nozze della sorella previste per la prossima primavera… le sgualdrine, ma… cosa aveva ottenuto? Niente. Ed io cosa avevo ottenuto in tutta la mia vita? Avevo amato la donna di un altro (e continuavo disperatamente ad amarla), avevo ucciso per essere qualcuno… ed eccomi lì in una foresta come un bandito. Il mio amore lontano… il mio nome disonorato per sempre… la mia vita… meglio non pensarci.  Presi una corda e ne feci un nodo scorsoio. Davanti a me si levava un enorme sicomoro sotto il quale c’era una grossa pietra. Salii in piedi sulla pietra, legai la corda ad un ramo del sicomoro, mi infilai il cappio alla gola e diedi un gran colpo di reni.
Sentii un rumore secco e caddi a terra. Una freccia aveva tagliato la corda proprio nel momento in cui stavo per impiccarmi. Raccolsi la freccia e vidi che aveva un biglietto incollato vicino alla punta.
Alla luce della luna mi misi a leggere.


Olaf, amico mio, conosco te e conosco la regina Eleonora e non ho dubbi su chi stamattina abbia detto il vero e chi abbia mentito. Ma Eleonora è la moglie del re, domani sarà la madre dell’uomo destinato a regnare sulla Francia. Capisci che non ho alternative? Sappi che rimarrai sempre nel mio cuore. Accetta il mio piccolo dono e, se il nome di re e di patria dicono ancora qualcosa alla tua mente non parlare mai a nessuno di questa storia.
Addio amico degno di miglior sorte.
Il tuo amico Luigi.




Qualcosa che al momento mi parve un sasso mi percosse il petto, ma mi accorsi che si trattava di un sacchetto di stoffa contenente duecento monete d’oro.

I due cavalieri che per tutto il giorno mi avevano seguito si dileguarono al gran galoppo nella fitta boscaglia.

Mi addormentai sull’erba e come quasi tutte le notti sognai che stavo passeggiando in un giardino fiorito, Eleonora mi guardava e mi sorrideva, io le dichiaravo il mio amore e lei si avvicinava… ma mentre stava per congiungere le sue labbra alle mie mi risvegliai.

Il giorno dopo donai le duecento monete d’oro al convento di Saint Pierre e lasciai libero il cavallo. Da allora vivo in questa foresta, mangio quello che trovo, accetto la carità dei viandanti e continuo a sognare Eleonora. A volte mentre sono solo mi torna in mente la canzone che cantava sempre mio padre quando mi insegnava a cavalcare… io ero un bambino e non capivo bene il senso delle parole, ma mi piaceva tanto e la cantavo con lui:

                             

                                        sola vorrei trovarla

                                        che dormisse o fingesse di dormire

                                        per rubarle un dolce bacio



Addio sconosciuto amico. Ho parlato con te perché sono sicuro che non mi crederai, quindi non sto violando la promessa fatta al mio sovrano tanti anni fa.

Si fa notte, cercati una locanda.

Io dormirò qui sull’erba e sognerò Eleonora. Sognerò di dichiararle il mio amore, di abbracciarla, di baciarla… tanto so già che mi sveglierò prima di riuscire a possederla, sia pure in sogno.



                                      Sognò, sognò, sognò, sognò,

                                      sognò, sognò, sognò…

                                      ma quella volta non si risvegliò.





NOTA STORICA: ho lasciato nel racconto il riferimento a Rocroi per rispetto al testo di Vecchioni, ma con molte perplessità. La canzone di Vecchioni, infatti ha un sapore occitanico-trobadorico che il mio racconto mantiene, anzi accentua. Ne consegue che il “nostro” Olaf è nato cinquecento o seicento anni prima della battaglia di Rocroi. Comunque nulla vieta di pensare che in età feudale ci sia stata un’altra battaglia di Rocroi di cui si è successivamente persa la memoria.







La leggenda di Olaf


(Roberto Vecchioni)

Fu allora che madonna gli disse:" Hai gli occhi belli
vorrei che accarezzassi stanotte i miei capelli"
Fu allora che rispose: "Grazie madonna no!
Io sono un cavaliere e il re non tradirò"
E a lei non valse niente comprare la memoria
di sentinelle e servi mandati a far baldoria
e a lui negli occhi grigi l'amore ritornò:
l'attesa di una vita per dover dire no
"Che fai sotto le stelle? chi vuoi dimenticare?"
Socchiuse gli occhi e volle andarsene, sparire
sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò
poi, come tutti, si risvegliò
sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò
poi, come tutti, si risvegliò.

Tornò di lì a tre giorni il re dalla gran caccia
e lei gli corse incontro graffiandosi la faccia
l'ira le fece dire: "Puniscilo perché
lui non portò rispetto alla moglie del re".
E a lui non valse a niente il sangue sui castelli
Rocroi, la spada e il sole sul viso nei duelli
quando sentì di dire di dover dire sì
con un cavallo e l'acqua fu cacciato di lì.
"Che fai sotto le stelle? chi vuoi dimenticare?"
Socchiuse gli occhi e volle andarsene, sparire
sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò
poi, come tutti, si risvegliò
sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò
poi, come tutti, si risvegliò.

Capì d'aver ucciso per essere qualcuno
capì d'aver amato il giorno di nessuno.
La strada all'improvviso, la strada si accorciò
e sotto un sicomoro la gola s'impiccò.
Sentì tagliar la corda, gli tesero una mano
ma dentro c'era l'oro, l'oro del suo sovrano
il re ti paga e chiede di non parlare mai
monta il cavallo e fila più lontano che vai.
"Che fai sotto le stelle? chi vuoi dimenticare?"
Socchiuse gli occhi e volle andarsene, sparire
sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò
ma quella volta non si svegliò
sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò
ma quella volta non si svegliò
sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò
ma quella volta non si svegliò
sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò,sognò
ma quella volta...

Questa canzone è stata incisa da Roberto Vecchioni e da Ornella Vanoni.