venerdì 23 settembre 2011

TOM FLAHERTY


Ci sono racconti, romanzi, canzoni, poesie che ti prendono perché sono scritti bene, o perché l’autore ha saputo esprimere magistralmente quello che aveva dentro, ma pochissime volte accade nella vita (e quando accade è un’esperienza straordinaria, ubriacante, una delle emozioni più intense che si possano provare al mondo) di trovare un testo che alla prima lettura o al primo ascolto ti lascia senza respiro, ti fa mancare l’aria, ti intontisce come un fuoco d’artificio. Ciò accade quando il poeta parla di una sensazione che anche tu hai provato, ma, e qui sta il bello, la descrive esattamente come tu l’hai provata… Tu leggi un testo e te ne senti l’autore.
A me è capitato ai tempi dell’università, nel 1969 o giù di lì, la prima volta che ho ascoltato la canzone dei New Trolls “Tom Flaherty”.
Fino a quel giorno non avevo mai aperto a nessuno, neanche agli amici più intimi, una pagina della mia vita che ritenevo solo mia, personale ed originale al punto che nessuno avrebbe mai potuto capirla e che pertanto se gliene avessi parlato l’avrebbe giudicata in maniera superficiale o errata. Tom Flaherty (poesia di un poeta a me sconosciuto: Riccardo Mannerini, tradotta da Fabrizio De André e musicata dai New Trolls) mi fece intuire una verità esaltante: qualcuno, in un altro tempo ed in un altro luogo aveva vissuto una sensazione identica alla mia e, a differenza di me, aveva avuto il coraggio di parlarne.
E allora ve ne parlo anch’io stasera (sono in casa da solo, fuori l’inverno morde come un lupo siberiano, ho appena finito di ascoltare in televisione un bellissimo concerto di Roberto Vecchioni), perché all’improvviso, senza un motivo preciso (o meglio il motivo è da ricercare nelle canzoni che ho appena finito di ascoltare) mi è volata la mente alla prima volta in vita mia in cui mi sono accorto di essere innamorato.
Dapprima, chissà perché, non volevo ammetterlo. Chiedevo a me stesso “che ci troverai mai di così speciale in quella lì?, una delle venti compagne di classe, né meglio né peggio delle altre”; ma non facevo in tempo a chiedermelo che già trovavo mille risposte: bellezza, ironia, energia, simpatia… Mi imponevo allora di pensare che la tale era più carina, la talaltra più spiritosa… ma mi accorgevo che dal confronto con “lei” tutte uscivano sconfitte, ma che dico sconfitte: polverizzate.
Cominciavo a pensare a lei la mattina appena sveglio, buttavo giù il caffè e non vedevo l’ora di essere in classe; percorrevo corso Sempione cercando con lo sguardo la Wolksvagen verde con cui il padre la accompagnava a scuola; rallentavo il passo e mi voltavo, sperando che per una volta avesse deciso di venire a scuola col 33 anziché in macchina… se un giorno era assente le ore mi sembravano lunghissime ed anche i miei poeti preferiti diventavano lagne inascoltabili.
Rileggo le ultime sei righe che ho scritto e mi accorgo di non aver detto niente di originale. Miliardi e miliardi di “primi amori” sono nati così, dai tempi dell’homo abilis ad oggi…
A questo punto chi mi sta leggendo si chiederà cosa abbia fatto io… anzi non aspetto che tu me lo chieda, te lo dico subito: NIENTE.
Come il Tom Flaherty della canzone mi posi da subito un imperativo categorico: nessuno avrebbe mai dovuto sapere di questo mio sentimento, men che meno lei. Perché? Beh ci sono molti motivi occasionali, ma uno solo autentico e profondo. Perché ero imbranato… perché eravamo diversissimi in tutto… perché non mi pareva che lei corrispondesse il mio sentimento… diciamo che tutte queste cose hanno avuto il loro peso, ma il motivo, torno a dirlo, era un altro.
In quel particolare momento della mia vita avevo bisogno di una storia mia e solo mia, da vivere, gustare, centellinare da solo, in casa… a scuola… in treno… la mattina mentre mi facevo la barba… il pomeriggio mentre ascoltavo i cantautori… la sera prima di addormentarmi… ogni volta che qualcosa non mi andava bene, nei momenti di insoddisfazione che erano molto più numerosi di quanto uno possa immaginare, perché quando si ricorda l’adolescenza la si ricorda vestita del “profumo del ricordo che cambia in meglio”ma, a pensarci razionalmente la mia non è stata una stagione di farfalle e di fiori: non mi piaceva il mio corpo che si allungava e si riempiva di peli e di brufoli, non mi piaceva aver perso l’unico amico della mia infanzia, trasferitosi all’estero senza lasciarmi uno straccio di indirizzo, non mi piaceva la full immersion liceale in un mondo di figli di industriali, medici, avvocati che ironizzavano sulla tuta blu, sull’italiano incerto e sulla Seicento di mio padre, non mi piaceva Cormano, non mi piaceva la grammatica greca, non mi piaceva la biologia fatta in maniera nozionistica e pallosa, non mi piaceva dover cambiare casa per la quarta volta in sei anni, non mi piaceva accorgermi giorno dopo giorno del lento ma inesorabile declino psicofisico dei miei genitori.
Ecco perché ritenevo tanto importante che nessuno venisse a conoscenza di questo mio “amore”: sarebbe bastato una battuta di un amico o un no di lei (che per mille motivi davo per scontato) e la magia si sarebbe dissolta in un secondo, come succede nelle favole. Ne parlavo moltissimo (nelle cose che scrivevo e soprattutto nelle cose che pensavo) ma sempre e soltanto con me stesso. Alle volte mi irrigidivo ascoltando i discorsi dei compagni di classe, perché mi assaliva il timore che qualcuno si fosse accorto di qualcosa, ma con un sospiro di sollievo finivo sempre per convincermi che si era trattato di un “falso allarme”; allo stesso modo mi scervellavo per cercare di capire cosa passasse per la testa di una dolcissima compagna, che era la mia e la sua migliore amica, quando ci invitava a passare il pomeriggio da lei (pomeriggi fantastici che assaporavo con una voluttà che poche volte ho provato in seguito nella mia vita), ma anche lì non ho mai avuto elementi per dedurre che avesse subodorato qualcosa (come mi confermò lei stessa con divertito stupore quando glielo chiesi molti anni dopo). L’unica che se ne accorse fu la nostra insegnante di lettere… non per niente era una poetessa.
Una delle domande che mi ponevo più di frequente in quel periodo era cosa ci fosse nel cuore “della mia ragazza”, padiglione “innamoramento & amore” ed allora la sottoponevo ad un attento monitoraggio. Sulle prime mi parve che, un po’ come la protagonista femminile dell’Aminta del Tasso –nomen est omen!- , fosse ancora calata nell’età dei giochi: mi piaceva da impazzire osservarla quando tornava in classe da ginnastica, rossa, sudata, scarmigliata e solo Dio sa quanto mi irritavano le battute poco cavalleresche dei compagni; poi mi era parso di capire che fosse innamorata di un vicino di casa, bellissimo ed irraggiungibile; infine mi ero convinto che le piacesse un nostro compagno di classe, che difatti di punto in bianco aveva preso a farmi una guerra che non mi spiegavo allora e di cui ancor oggi non so darmi ragione.
Ma tu amico lettore mi stai guardando con aria dubbiosa. Ti leggo in faccia che sei convinto che non ti abbia detto tutto. Ebbene hai ragione. Ma stasera mi sono incamminato sulla strada dei ricordi ed ho deciso di percorrerla fino in fondo. E allora te lo dico. Tieniti forte che adesso si vola.
Una volta le ho chiesto di uscire.
Mio padre, tramite il dopolavoro della ditta in cui lavorava mi aveva procurato all’ultimo momento due biglietti per uno spettacolo teatrale: “Giulietta e Romeo” (non facciamo dell’ironia per favore…). Al di là del testo shakespeariano, era di tutto rispetto anche la compagnia teatrale (che tutti noi conoscevamo ed apprezzavamo, perché aveva appena recitato in televisione il “Davide Copperfield”). Glielo proposi, tutto d’un fiato, ma simulando freddezza e nonchalanche in un giorno di pioggia torrenziale. La risposta fu “devo sentire i miei genitori”. Ero appena tornato a casa quando mi chiamò per dirmi che sua madre non le permetteva di uscire con quel tempaccio. Confesso che non credetti neppure per un attimo a questa versione; lo considerai un due di picche avvolto in carta argentata, ma il mio sentimento non mutò, ed il mio proponimento neppure.
Trentotto anni dopo in una di quelle interminabili notti d’ospedale tra medici, infermieri, morfina, flebo, saturimetri, ossigeno ed altre diavolerie ebbi una lunghissima conversazione telefonica con lei. Parlammo di tutto e di tutti: persone, ricordi, avvenimenti, situazioni. Non le chiesi se all’epoca si fosse accorta dei miei sentimenti, perché avevo già avuto occasione di chiederglielo e la risposta era stata “cado dalle nuvole”. Le chiesi invece se a quel tempo fosse innamorata del nostro compagno di classe e la risposta fu un NO chiaro, immediato, inequivocabile, pronunciato d’istinto senza nemmeno starci a pensare sopra. Le chiesi allora di quella volta del teatro e mi confessò candidamente che non si ricordava l’episodio… poteva essere stata una scusa, ma poteva benissimo essere stato un veto della madre. “Ma in questo caso –aggiunse ridendo- gliel’avrò fatta sicuramente pagare, barricandomi in camera mia dopo una scenata”.



Nessun commento:

Posta un commento