venerdì 19 agosto 2011

IL RAGAZZO DI SARAJEVO

A parte il periodo dell'adolescenza, in cui certi incontri vengono vissuti in maniera fortemente emotiva e ripensati per giorni e mesi con tinte sempre meno realistiche e sempre più mitiche, credo che nessuno dia molta importanza alle conoscenze che si fanno in vacanza, tanto più a quelle sfuggevoli ed occasionali. Il compagno di una partita a briscola al villaggio turistico, il tassista che portandoti all'aeroporto ti ha spiegato in siciliano stretto come, se ne avesse la possibilità sistemerebbe l'Italia, il giovanottone a cui hai dato una mano ad accendere la carbonella. ricevendone in cambio un'orata alla brace, la bella ragazza che ti ha sorriso mentre le spiegavi che Omero vive l'isola delle sirene come un posto immaginario, mentre per Virgilio è quell'isolotto lì, selvaggio ed inaccessibile, piazzato davanti al camping "L'isola" (ma no!), di fianco al "Villaggio Turistico delle Sirene” (ma pensa!) posto in via delle Sirene (Dio che fantasia...), tutte queste figure, dicevo, svaniscono dalla nostra mente insieme all'abbronzatura tre giorni dopo il ritorno a casa.


Eppure credo che per tutta la vita serberò sempre un ricordo vivo di un ragazzo incontrato per caso a Sarajevo in una torrida mattina dell'estate del 1991, pochi giorni prima che l'idiozia degli  uomini accendesse sinistri bagliori di guerra in un paese povero e bellissimo che solo allora, grazie al turismo, stava uscendo da una secolare miseria.
Avevo parcheggiato la macchina in un vialone dal nome impronunciabile (e di ardua lettura, almeno per me che non conosco l'alfabeto cirillico...) e dopo avere inutilmente cercato di orientarmi avevo fermato un passante, un giovane sui vent'anni e gli avevo chiesto, farfugliando  qualcosa nel mio inglese maccheronico mischiato a due o tre parole serbe ripescate dalla guida verde del Touring, un'indicazione per orientarmi.
Mi aveva risposto in perfetto italiano (aveva una vera adorazione per il nostro paese) e poi si era messo a tessermi l'elogio del cinema di casa nostra di cui era un vero conoscitore. Io mi ero sentito in dovere di rispondergli elogiando quel poco che conoscevo del cinema jugoslavo: "Papà è in viaggio d'affari” e "Ti ricordi di Dolly Bell?". La cosa lo aveva ancora di più entusiasmato. Avevamo scoperto che nessuno di noi due amava il cinema americano, salvo poche eccezioni: a lui era piaciuto alla follia "Il laureato", a me "Fragole e sangue". Ricordo che non conosceva la parola "fragole" ed io avevo cercato di spiegargli cosa fossero, ma più io descrivevo le fragole, meno lui capiva e la cosa lo irritava; ormai era diventata una questione di  vita o di morte: d o v e v a conoscere il significato di quel vocabolo! Per fortuna passò di lì una ragazzina con una maglietta bianca sulla quale era disegnata un'enorme fragola e la scritta JAGODA (l'unica parola serba che ricordo dopo anni...), altrimenti penso che la curiosità lo avrebbe consumato.
Passeggiammo per la città e mi parlò di Gabrilo Princip, per i nostri libri di storia un povero mentecatto, vittima inconsapevole di un meccanismo più grande di lui, per questo ragazzo, come per tutti i bosniaci, un eroe nazionale. Mi portò a vedere il ponte su cui si consumò l'attentato, il luogo preciso da cui vennero sparati i colpi di pistola che cambiarono la faccia dell'Europa, il calco dell'impronta dei piedi preso subito dopo il delitto e conservato sul posto; mi raccontò la leggenda popolare per cui qualunque persona di sesso maschile metta i piedi là sopra avrà una vita grama, mentre se lo fa una donna la fortuna le arriderà (ho ancora la foto dei piedi di mia moglie che calpestano il calco...); mi raccontò con orgoglio che i bambini jugoslavi cantano: "una bandiera, due alfabeti, tre religioni, quattro lingue, cinque popoli, sei stati...", mi mostrò i tabelloni su cui venivano affissi i manifesti funerari, con croci nere, stelle rosse, mezzelune verdi una accanto all'altra... mi parlò di tolleranza, di pace, di convivenza pacifica. Ad  un certo punto gli proposi di prendere un caffè.
Egli accettò ed io mi avviai verso il bar più vicino. Egli scosse la testa e sorrise.
"Sarebbe banale, io bosniaco e tu cristiano entrare in questo bar serbo-bosniaco. Andiamo al bar dei mussulmani".
Prendemmo un caffè alla turca, poi ci salutammo. Io via, per la valle della Neretva e poi Medjugorge, poi di nuovo al mare; lui... chissà che fine avrà fatto?
La piazza del mercato dove parlammo di cinema e di fratellanza tra i popoli l'ho rivista pochi anni dopo in televisione squarciata dalle bombe e coperta di brandelli di carne umana dopo un orrendo attentato contro donne e bambini; dall'inquadratura successiva mi sono accorto che il bar musulmano dove prendemmo il caffè ha fatto la stessa fine.
E lui?
Sarà vivo? Sarà morto? Sarà fuggito presagendo l'orrore di ciò che stava per accadere? Sarà rimasto ed avrà impugnato le armi contro quelli che pochi giorni prima erano i suoi compatrioti? Ed in questo caso lo avrà fatto convinto o a malincuore?
Chissà.
Ora che ci penso non ci siamo neppure presentati. Non ho mai saputo né il suo nome né il suo cognome.
Nel mio ricordo e nel mio cuore resterà sempre "il ragazzo di Sarajevo".

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