venerdì 26 agosto 2011

PIAZZA CORDUSIO

Paradossalmente l'unica mia canzone che posso definire, senza paura di esagerare "famosa" è una delle canzoni che mi piacciono meno in assoluto. Sto parlando, ovviamente, di "Piazza Cordusio". Non ne amo la musica (un giro di do banale e scontatissimo, per niente originale, lontanissimo dalla genialità di certi suoi fratelli, dall'americana "Blue moon", alla "Gatta" di Paoli, a "Tous les garçons et les filles de mon age" di Françoise Hardy), così come un tantino "paolotto" mi pare il testo che oggi non riscriverei né sottoscriverei.
Eppure -e non ho mai capito come sia potuto succedere- è una canzone conosciutissima: la cantano gli scouts, la insegnano ai bambini in colonia, si trova, o almeno si trovava negli anni Settanta, sui libretti dei canti di alcune parrocchie (per esempio la S. Vincenzo di Brusuglio), è pubblicata nei più autorevoli canzonieri cattolici nella sezione "cantautori". Forse qualcuno me l'ha sentita cantare, gli è piaciuta e l'ha a sua volta insegnata agli amici, forse qualcuno a cui ho regalato la cassetta delle mie prime canzoni l'ha poi divulgata... non lo saprò mai. Qualcuno crede che sia di Claudio Chieffo, addirittura l'ho sentita attribuire a Guccini (che fantasia, ragazzi; perché non a Beethoveen, già che ci siamo?), invece l'ho scritta io.
"Piazza Cordusio" nacque, quasi per caso, verso la fine del 1970. All'epoca (ero entrato da poco nella Sede Regionale di Mani Tese) un'alluvione di incredibile violenza aveva sommerso il Pakistan e come Mani Tese ci eravamo mobilitati per inviare aiuti (fatto eccezionale e dovuto all'assoluta emergenza, in quanto normalmente eravamo contrari a mandare soldi nel Terzo Mondo, preferendo investire il denaro per favorire piccoli progetti di sviluppo: scuole professionali, ambulatori ecc. secondo il vecchio principio del "non dare il pesce agli affamati, ma insegnare loro a pescare").
I nostri gruppi lombardi ci segnalavano la disponibilità a vendere oggetti di vario tipo e devolvere il ricavato alle popolazioni alluvionate, ma, a parte qualche piccolo gruppo legato alle parrocchie, non avevano un locale dove vendere tutto il bric à brac che la gente offriva loro. L'ATM, da noi interpellata ci mise a disposizione un locale nel sottopassaggio della Metropolitana che collega Piazza Cordusio a piazza Duomo ed io diedi la mia disponibilità a trascorrere le vacanze di Natale dietro il bancone a vendere tutto il materiale che i gruppi ci portavano a ritmo incessante: servizi di caffè della nonna, vecchie bambole, ninnoli in porcellana, specchi, collane, libri usati ecc. Nessun altro se la sentì di affiancarmi con costanza, ma al massimo per una o due ore al giorno (alcuni lavoravano, altri stavano preparando esami universitari, altri ancora dovevano partire con i genitori per le vacanze di Natale). Attraverso un incessante passaparola tra gli amici e gli amici degli amici finimmo per trovare una persona estranea al movimento che accettò di condividere con me quest'avventura, una certa Katia, il cognome non l'ho mai saputo, anche perché pochi giorni dopo tornò in Inghilterra dove lavorava e da allora non ho più avuto sue notizie. Con questa ragazza alta, robusta, timidissima, qualche anno più di me, trucco vistoso, inglese splendido, trascorsi una quindicina di giorni a svolgere questa attività del tutto inconsueta e nelle ore di morta, quando nessuno entrava a comperare, facevamo lunghe chiacchierate ed il nostro discorso finiva sempre per cadere sulla fauna di giovani sbandati, sporchi, scarmigliati e male in arnese che sedevano proprio fuori dal nostro negozio a suonare la chitarra o a chiedere l'elemosina. Entrambi ne eravamo affascinati, li consideravamo "hippies", liberi e libertari per scelta, come ce li avevano presentati alcune delle canzoni più stupide in voga all'epoca. Finché un pomeriggio uno di questi giovani entrò nel negozio (credo, ma non me ne intendo ora e meno ancora me ne intendevo a quei tempi, sotto l'effetto di uno spinello o di qualche acido) e cominciò a fare dell'ironia pesante sul negozio, sul volontariato, ecc.
Io cercai di mantenermi calmo e gli dissi che avevo un grande rispetto, e magari anche una grande ammirazione per la sua scelta di vita, e che lui, da vero libertario doveva rispettare chi aveva scelto di fare una vita diversa.
Il ragazzo si appoggiò al banco e si prese la testa tra le mani.
"Scelta? Fosse per me vorrei avere una casa comoda e calda, una famiglia, un casino di soldi, ma la mia vita è sempre stata una merda: mio padre beveva, mi pestava, poi è morto. Mia madre si è messa con un altro, ma questo, oltre a pestare me, pestava anche lei. Mi hanno mandato in un orfanotrofio.... lasciamo perdere... diciamo che adesso sono qui. Quando insulto la gente che passa non è una scelta politica, è invidia. Invidia, hai capito? E le brave persone che mi passano vicino, con la loro camicia bianca, il loro Dio creato a loro immagine e somiglianza, il loro conto in banca: o pensano che questa vita me la sono scelta io, e quindi che ci sto bene, oppure distolgono lo sguardo, perché do fastidio, hai capito? noi abbiamo i capelli lunghi, siamo andati via da casa, diamo fastidio noi. Ce n' era un altro duemila anni fa che aveva i capelli lunghi... che se n'era andato di casa... che andava in giro con i suoi amici... che mangiava con le troie... anche lui dava fastidio... l'hanno fatto fuori, ma era migliore di quelli che lo hanno fatto condannare, hai capito? Voi due però siete forti".
Ci strinse la mano ed uscì senza aggiungere una parola.
La sera quando uscimmo dal sottopassaggio del metrò e sbucammo in piazza Cordusio c'era una nebbia fittissima e le poche facce che vedevamo in giro, a me davano un po' di disagio, mentre Katia era letteralmente terrorizzata, perché diceva che la mattina due o tre tipi l'avevano importunata e le avevano rivolto delle proposte oscene. Le proposi, se la cosa poteva tranquillizzarla, di camminare abbracciati, e così facemmo.
Dopo qualche passo ci trovammo davanti il capellone che era entrato nel negozio qualche ora prima.
" 'Sto pomeriggio non ti ho detto la cosa più importante" mi disse con un sorriso amaro. "Tu ce l'hai una donna che ti abbraccia. Noi alle donne gli facciamo schifo. La solitudine è la nostra peggior condanna". Tornai a casa con il cuore in tumulto e, di getto, scrissi le parole e la musica di "Canzone per Katia", poi, la mattina dopo ci ripensai e trovai che il titolo non c'entrava quasi niente con il testo ed allora optai per "Piazza Cordusio". Eppure questa canzone, che a differenza di molte altre non riesce ad emozionarmi, almeno tre belle soddisfazioni nella mia vita me le ha date.
Scena prima: Estate 1985, Sorrento. Avevo piantato la tenda in un campeggio bellissimo, verdeggiante e tranquillo, anche se un po' troppo a saliscendi per i miei gusti. Avevo, almeno per i primi giorni, un' intera terrazza solo per me, con una vista indimenticabile sull'isola di Capri. Una sera arrivò un gruppo di ragazzi torinesi, stanchi, ma così stanchi che non avevano la forza neppure di piantare la tenda. Si tolsero dalle spalle i sacchi a pelo, li srotolarono per terra, mangiarono un panino e si buttarono a dormire. Prima di addormentarsi uno dei ragazzi disse: "Ehi gente, ma lo vedete come siamo conciati? Siamo qui per terra come panni stesi al sole". Ed un altro di rimando "Eh la Madonna, cos'è, piazza Cordusio?" Il giorno dopo fraternizzammo, ma, memore di un detto in voga negli anni Sessanta: "al mare sono tutti ingegneri ed industriali" non dissi mai loro che ero l'autore della canzone che avevano citato.
Scena seconda: vigilia di Natale del 1977. Da pochi giorni nel mio palazzo avevano installato un'antenna che ci permetteva di ricevere le prime televisioni private. Attratto dalla novità stavo "navigando" tra i vari canali, quando la mia attenzione fu catturata da un'emittente che trasmetteva da Piacenza: Telelibertà. Quattro ragazzine con chitarre e batteria stavano eseguendo un repertorio di canzoni religiose con una maestria davvero entusiasmante. Ascoltai a bocca aperta "Oh happy days", "Merry, merry Christmas" di John Lennon, due o tre pezzi da "Fratello sole. sorella luna " di Zeffirelli. Conclusero il loro recital con "Piazza Cordusio" di Anonimo. Provai un groppo in gola. Fu per me il più bel regalo di Natale.
Ma la più bella soddisfazione, quella che serbo ancora nel cuore e che ogni tanto mi torna alla mente, specie quando mi sento sottovalutato in un qualsiasi campo, l'avevo avuta due anni prima, il 25 aprile 1975, trentesimo anniversario della Liberazione.
Chi mi conosce sa che nei confronti della politica ho sempre avuto un atteggiamento di distaccato scetticismo: non credo alle ricette per "la felicità del popolo"; credo che in ogni ideologia, tranne le più aberranti, ci sia qualcosa di valido, insieme a qualcosa che non mi piace; credo che ogni partito ed ogni gruppo siano costretti a scendere a compromessi, a mentire, a fare scelte discutibili ecc. Ecco perché non ho mai aderito a nessun partito politico né mai mi sono scalmanato più di tanto per i risultati elettorali: nessuno ci darà mai il paradiso in terra, nessuno, tranne una dittatura che nell'Italia di oggi non vedo all'orizzonte neppure come ipotesi accademica, ci metterà nelle condizioni di fare le valigie e di scappare in Svizzera. (*)
L'unica volta in vita mia che ho avuto un atteggiamento diverso nei confronti delle fazioni politiche fu nei primi mesi del 1975, quando un po' per il clima che si respirava di "golpe strisciante", un po' per il modo scorrettissimo in cui il governo aveva gestito i corsi abilitanti straordinari (scorrettezza denunciata solo dal "Manifesto" ed avvallata da tutti gli altri al grido di "ma cosa vogliono questi insegnanti?"), un po' per le stragi di stato e per i morti ammazzati per le strade (che brividi il funerale di Varalli letto sui quotidiani "alternativi" e quello di Zibecchi a cui, trovandomi a passare per caso da Piazza Duomo, assistetti di persona!) che rimanevano impuniti, mi ero avvicinato all'estrema sinistra cosiddetta "extraparlamentare".
Vi lascio immaginare la mia emozione quando un mio amico sacerdote missionario (che di lì a poco un infarto avrebbe prematuramente sottratto agli amici ed all'impegno sociale che erano tutta la sua vita) mi propose di esibirmi al suo paese, Cisano Bergamasco, il 25 aprile, nel corso di una serata organizzata dal Comitato Antifascista Permanente, in un recital di canti della Resistenza, facendomi balenare l'idea che, in caso di richieste di bis, avrei potuto presentare al pubblico qualche mia canzone.
Mi preparai coscienziosamente ed arrivai caricatissimo al fatidico giorno del recital. Appena giunto a Cisano Bergamasco scoprii con disappunto che la serata era organizzata non dal Comitato Antifascista Permanente, bensì dalla Democrazia Cristiana ed in particolare dal sindaco del paese (fratello del mio amico missionario).
Ormai ero lì e feci buon viso a cattivo gioco, ingoiando con un sorriso forzato questo "scherzo da prete"; con l'unica consolazione che in quel paese la DC era meno becera di quanto si potesse pensare, dato che, mi spiegarono, la serata era organizzata in ricordo del parroco del paese, massacrato il 25 aprile 1945 dai nazifascisti.
Feci un rapido sopralluogo in teatro, provai rapidamente due o tre canzoni e mi avviai ad una cena in mio onore, fischiettando tra i denti "Contessa" di Paolo Pietrangeli.
I commensali erano tutte persone di una certa età e parlavano esclusivamente di questioni e persone del posto, per cui io ero completamente tagliato fuori da ogni discorso. Accanto a me sedeva l'unica giovane presente alla cena, la figlia del sindaco, ma si si sentiva, se possibile, ancora più a disagio e "pesce fuor d'acqua" di me.
Dopo un lungo, imbarazzante silenzio le rivolsi la parola e le chiesi se le piacevano i cantautori italiani. Rispose affermativamente e per una decina di minuti ci buttammo a parlare di Vecchioni, Guccini, De André e di chissà quanti altri ancora.
Ad un certo punto la ragazza (mi pare, se non ricordo male, che si chiamasse Romana) si interruppe e disse: "A me però, più che la canzone d'autore, piacciono i canti popolari, quelli di cui nessuno conosce l'autore, quelli che nascono spontaneamente tra la gente".
"Anche a me" le dissi. "Ma se ti intendi un po' dell'argomento dovresti sapere che dal 1918 ad oggi non sono più nate canzoni popolari anonime".
"Come no? Hai mai sentito Piazza Cordusio?"
(*) Questo racconto è del 2000 e non ho voluto modificarlo, perché fotografa un preciso momento storico. Oggi i tempi sono cambiati ed io sono convinto che sia necessaria un’attenta vigilanza democratica, perché il quadro politico italiano è pieno di persone che vorrebbero restringere ancor più gli spazi di libertà, modificando e travolgendo la Costituzione. Oggi a parlare di dittatura non mi sembra di fare della fantascienza come mi sembrava undici anni fa…
PIAZZA CORDUSIO
Dormono per terra come panni stesi al sole,
sembrano vestiti di disperazione,
ti guardano passare con aria disgustata
quasi fossi tu ad aver sbagliato strada;
il bravo borghese con la camicia bianca
tutto casa e chiesa e conto aperto in banca
toglie via lo sguardo da questo mondo che non fa per lui.
Ma fermati un momento, sospendi il tuo lavoro,
rimani un po’ a parlare, son uomini anche loro,
non ti scandalizzare per i vestiti sporchi
per le barbe lunghe, per i capelli incolti:
son tutti poveracci che han perso una partita,
dev’esserci un motivo se è qui la loro vita,
chissà cosa sognavano quand’erano bambini tempo fa.
Ti parlano di crisi, infanzia disgraziata,
litigi, orfanatrofi, famiglia disgregata
offendono chi passa vedendolo integrato
in una società che niente a loro ha dato;
se vedono una donna gli si rattrista il viso,
darebbero la vita in cambio di un sorriso,
la loro solitudine è la peggior condanna che ci sia.
Ti parlano di un uomo, un altro capellone
che se ne andò di casa con dodici persone
e andava per le strade fermandosi a parlare,
levava la sua voce contro un mondo fatto male;
nel nome della pace levava la sua voce,
per questo l’hanno preso e l’hanno messo in croce
eppure era migliore di quelli che l’han fatto condannar.

venerdì 19 agosto 2011

IL RAGAZZO DI SARAJEVO

A parte il periodo dell'adolescenza, in cui certi incontri vengono vissuti in maniera fortemente emotiva e ripensati per giorni e mesi con tinte sempre meno realistiche e sempre più mitiche, credo che nessuno dia molta importanza alle conoscenze che si fanno in vacanza, tanto più a quelle sfuggevoli ed occasionali. Il compagno di una partita a briscola al villaggio turistico, il tassista che portandoti all'aeroporto ti ha spiegato in siciliano stretto come, se ne avesse la possibilità sistemerebbe l'Italia, il giovanottone a cui hai dato una mano ad accendere la carbonella. ricevendone in cambio un'orata alla brace, la bella ragazza che ti ha sorriso mentre le spiegavi che Omero vive l'isola delle sirene come un posto immaginario, mentre per Virgilio è quell'isolotto lì, selvaggio ed inaccessibile, piazzato davanti al camping "L'isola" (ma no!), di fianco al "Villaggio Turistico delle Sirene” (ma pensa!) posto in via delle Sirene (Dio che fantasia...), tutte queste figure, dicevo, svaniscono dalla nostra mente insieme all'abbronzatura tre giorni dopo il ritorno a casa.


Eppure credo che per tutta la vita serberò sempre un ricordo vivo di un ragazzo incontrato per caso a Sarajevo in una torrida mattina dell'estate del 1991, pochi giorni prima che l'idiozia degli  uomini accendesse sinistri bagliori di guerra in un paese povero e bellissimo che solo allora, grazie al turismo, stava uscendo da una secolare miseria.
Avevo parcheggiato la macchina in un vialone dal nome impronunciabile (e di ardua lettura, almeno per me che non conosco l'alfabeto cirillico...) e dopo avere inutilmente cercato di orientarmi avevo fermato un passante, un giovane sui vent'anni e gli avevo chiesto, farfugliando  qualcosa nel mio inglese maccheronico mischiato a due o tre parole serbe ripescate dalla guida verde del Touring, un'indicazione per orientarmi.
Mi aveva risposto in perfetto italiano (aveva una vera adorazione per il nostro paese) e poi si era messo a tessermi l'elogio del cinema di casa nostra di cui era un vero conoscitore. Io mi ero sentito in dovere di rispondergli elogiando quel poco che conoscevo del cinema jugoslavo: "Papà è in viaggio d'affari” e "Ti ricordi di Dolly Bell?". La cosa lo aveva ancora di più entusiasmato. Avevamo scoperto che nessuno di noi due amava il cinema americano, salvo poche eccezioni: a lui era piaciuto alla follia "Il laureato", a me "Fragole e sangue". Ricordo che non conosceva la parola "fragole" ed io avevo cercato di spiegargli cosa fossero, ma più io descrivevo le fragole, meno lui capiva e la cosa lo irritava; ormai era diventata una questione di  vita o di morte: d o v e v a conoscere il significato di quel vocabolo! Per fortuna passò di lì una ragazzina con una maglietta bianca sulla quale era disegnata un'enorme fragola e la scritta JAGODA (l'unica parola serba che ricordo dopo anni...), altrimenti penso che la curiosità lo avrebbe consumato.
Passeggiammo per la città e mi parlò di Gabrilo Princip, per i nostri libri di storia un povero mentecatto, vittima inconsapevole di un meccanismo più grande di lui, per questo ragazzo, come per tutti i bosniaci, un eroe nazionale. Mi portò a vedere il ponte su cui si consumò l'attentato, il luogo preciso da cui vennero sparati i colpi di pistola che cambiarono la faccia dell'Europa, il calco dell'impronta dei piedi preso subito dopo il delitto e conservato sul posto; mi raccontò la leggenda popolare per cui qualunque persona di sesso maschile metta i piedi là sopra avrà una vita grama, mentre se lo fa una donna la fortuna le arriderà (ho ancora la foto dei piedi di mia moglie che calpestano il calco...); mi raccontò con orgoglio che i bambini jugoslavi cantano: "una bandiera, due alfabeti, tre religioni, quattro lingue, cinque popoli, sei stati...", mi mostrò i tabelloni su cui venivano affissi i manifesti funerari, con croci nere, stelle rosse, mezzelune verdi una accanto all'altra... mi parlò di tolleranza, di pace, di convivenza pacifica. Ad  un certo punto gli proposi di prendere un caffè.
Egli accettò ed io mi avviai verso il bar più vicino. Egli scosse la testa e sorrise.
"Sarebbe banale, io bosniaco e tu cristiano entrare in questo bar serbo-bosniaco. Andiamo al bar dei mussulmani".
Prendemmo un caffè alla turca, poi ci salutammo. Io via, per la valle della Neretva e poi Medjugorge, poi di nuovo al mare; lui... chissà che fine avrà fatto?
La piazza del mercato dove parlammo di cinema e di fratellanza tra i popoli l'ho rivista pochi anni dopo in televisione squarciata dalle bombe e coperta di brandelli di carne umana dopo un orrendo attentato contro donne e bambini; dall'inquadratura successiva mi sono accorto che il bar musulmano dove prendemmo il caffè ha fatto la stessa fine.
E lui?
Sarà vivo? Sarà morto? Sarà fuggito presagendo l'orrore di ciò che stava per accadere? Sarà rimasto ed avrà impugnato le armi contro quelli che pochi giorni prima erano i suoi compatrioti? Ed in questo caso lo avrà fatto convinto o a malincuore?
Chissà.
Ora che ci penso non ci siamo neppure presentati. Non ho mai saputo né il suo nome né il suo cognome.
Nel mio ricordo e nel mio cuore resterà sempre "il ragazzo di Sarajevo".

sabato 13 agosto 2011

VIA DUE GIUGNO

Uno dei primi ricordi della mia vita, forse il più antico, è legato ad un mio capriccio... e ad un'ingiustizia che temevo, sbagliando, di aver subito. Ed il ricordo di quell'ingiustizia mi ha bruciato per anni, dapprima consciamente, poi nell'inconscio, finché, quando finalmente la vita me l'aveva fatta dimenticare, ho scoperto che quella volta non avevo subito un'ingiustizia... e che la zia era in perfetta buonafede e... ma andiamo con ordine.
Non riesco ovviamente a datare l'episodio che sto per narrare, ma da un paio di indizi (intanto speravo di essere portato in braccio, poi non sapevo ancora leggere, cosa che ho imparato prestissimo, molto, molto prima dell'età scolare...) direi che dovevo avere sui tre anni.
Nel ricordo indosso un golfino di lana a righe verdi e grigie fatto a maglia dalla mamma, ma forse è uno scherzo della memoria; ho sentito tanto parlare di questo mio "capo d'abbigliamento preferito" che -mi raccontano- non volevo mai togliere né cambiare e l'ho visto tante volte nelle vecchie fotografie, ahimè in bianco e nero, che forse la mia mente ha deciso che dovevo averlo indosso anche quel giorno.
Quel che è certo è che ero con una mia zia, vedova da poco, dopo una giovinezza spesa a curare un marito malato; avevamo lasciato la casa dei miei nonni materni, un antico palazzotto signorile ormai degradato e fatiscente, ridotto ad una miriade di bilocali per proletari disagiati, ignari che mille anni fa tra quelle mura, almeno così si dice, era vissuto un implacabile fustigatore dei vizi del clero, che sarebbe poi diventato uno dei più grandi papi del Medioevo col nome di Alessandro II, e stavamo andando a casa della zia, dall'altra parte del paese (all'epoca tutti lo chiamavano ancora paese ed infatti ne aveva la struttura, nonostante da un quarto di secolo fosse stato inglobato in Milano col nome di "quartiere".)
Ci eravamo incamminati lentamente, passando davanti ad una delle più belle e meno conosciute basiliche romaniche d'Italia, dedicata ai santi Apollinare ed Anselmo, chiesa stupenda, sconosciuta ai milanesi di città che non l'hanno mai vista e la citano spesso a sproposito pensandola (erroneamente) sprovvista di organo, o meglio, come dice la leggenda, con l'organo dipinto sul muro; vecchia balorda diceria che per chi come me vi è stato battezzato, dopo che sette generazioni di miei antenati vi hanno ricevuto battesimo, matrimonio e funerale, fa ridere i polli. E allora, direte voi, la vecchia imprecazione milanese... beh, quella ha tutta un'altra origine, ma ve ne parlerò un'altra volta.
Camminavamo per le viuzze strette dove l'automobile nera del dottore faticava a farsi largo tra i carretti stracolmi di fieno tirati da cavalli magri, e un motocarro rosso strapieno di mercanzie ballonzolava sul selciato facendo battere ritmicamente una trentina di paia di zoccoli appesi ad una corda da bucato clap... clap... clap... quando all'improvviso io dissi che ero stanco e che non volevo più andare avanti.
La zia cercò di prenderla sul ridere, poi si innervosì, poi tornò a blandirmi, dicendomi che ormai eravamo quasi arrivati.

"Vedi, siamo già in via Due Giugno. Dietro quell'angolo c'è la mia casa".
Come mi capitava spesso da bambino la curiosità ebbe il sopravvento sulla stanchezza o sulla voglia di far ammattire.
"Zia, perché questa via si chiama via Due Giugno?"
"Perché il Due Giugno è il giorno in cui abbiamo cacciato via il re".
"Zia, chi ha cacciato via il re?"
"Tutti gli italiani, io, il povero zio Mario, la tua mamma, il tuo papà, i nonni..."
"Zia, anch'io ho cacciato via il re?"
"No amore, tu non eri ancora nato, ma se tu fossi stato grande e se lo avessi conosciuto, anche tu avresti voluto che il re se ne andasse".
"Zia, perché avete cacciato via il re?"
"Perché non era capace di fare il re, ha messo su a comandare un uomo cattivo cattivo che voleva avere sempre ragione, e ha detto e fatto tante brutte cose e poi ci ha fatto fare la guerra e tante persone sono morte per colpa di quest'uomo cattivo e il re lo ha sempre lasciato fare e non è mai intervenuto".
"Zia, è da tanto che abbiamo cacciato via il re?"
"No, caro, saranno sei anni".
"E prima che cacciassimo via il re, come si chiamava questa via?"
Non dimenticherò mai la faccia di mia zia. Restò un attimo perplessa, poi mi rispose con un'aria che non sono mai riuscito a definire:"Ma... ora che ci penso... questa via si è sempre chiamata via Due Giugno... già da quando ero una bambina e ci passavo per andare al cimitero che adesso lo hanno spostato in via Seguro, ma allora era proprio lì sulla piazza..."
Mi è capitato tante volte nella mia infanzia di "essere trattato da bambino", cioè che mi si dicesse qualcosa di assurdo per troncare un discorso. Mi ha sempre fatto male, ma mai come quella prima volta.
Mi sentivo abbastanza grande da capire che se la via Due Giugno si chiamava così perché qualcuno in quella data aveva cacciato via il re, non poteva avere già quel nome prima che il re fosse cacciato; non sono mai stato della pasta di certi miei alunni che credono che il Preromanticismo venne chiamato così perché trent'anni dopo sarebbe nato il Romanticismo.
Rimasi in silenzio e soffrii moltissimo.
Non pensai neppure per un istante che vi fosse sotto qualcosa che io non dovevo sapere, qualche mistero riservato agli adulti, come mi sarebbe accaduto molte volte in tutta l'infanzia e l'adolescenza davanti a qualche "conto che non tornava".
Semplicemente pensai che mia zia non avesse voluto sforzare la memoria, tanto non ne valeva la pena, e che mi ritenesse tanto "bambino" da accettare una spiegazione che per me aveva il sapore dell'insulto.
Poi la vita diede a me, come a tutti gli adulti, ben altre occasioni per rimanere male ed offendersi, quindi smisi di pensarci.
Il Due Giugno 1982 il Corriere della Sera pubblicò un'intera pagina di curiosità garibaldine, in occasione del primo centenario della morte dell'Eroe dei due Mondi. L'ultima, in basso a destra, diceva "A Milano la via Due Giugno non è dedicata come molti pensano alla proclamazione della Repubblica, bensì alla ricorrenza della morte di Garibaldi".

sabato 6 agosto 2011

IMPROVVISO PAESE

E all'improvviso mi salta fuori
con le sue case, mi copre il sole
giuro: credevo che fosse altrove
settembre è tardi, sono le nove...
Quante volte ho cantato questa canzone e quante volte ho scosso la testa alle parole "giuro: credevo che fosse altrove", pensando che, se uno collega il nome di un paese ad una persona, o sa benissimo dov'è, o prima o poi gli viene spontaneo andare a guardare sulla carta geografica dove si trova... e quindi questo concetto di Roberto Vecchioni mi è sempre parso una finzione poetico-letteraria, bellissima, sia pure, ma poco, o per nulla credibile.
Eppure quella sera che ero in macchina col papà di Sonia (sembra ieri, ma devono essere passati millenni, sì, perché sto parlando di un tempo in cui lui non era ancora malato... e lei era poco più che una bambina e non aveva ancora avuto tutti i problemi che sappiamo... e Regi era un bambinetto... e Tatiana era ancora di là da venire...), quella volta che stavamo andando in collina a mangiare le salamelle grigliate con la polenta, ricordo che la parola VALGREGHENTINO posta all'entrata di un paese mi ha fatto sobbalzare, tanto che mi sono stropicciato gli occhi per vedere se avessi letto giusto o se la mia incipiente presbiopia, il crepuscolo e la bruma autunnale mi avessero giocato uno scherzo.
In effetti stavamo entrando in Valgreghentino.
Subito il pensiero era volato indietro ad un passato che non rimpiango, certo, ma che conservo gelosamente dentro me, perché è pur sempre una pagina della mia vita: a quando, pochi mesi prima di incontrare il grande amore, avevo messo in scena, con un soldo di sofferenza e due di masochistico autocompiacimento, il mio ultimo psicodramma, l'ultima replica di quello che era stato un topos di tutta la mia adolescenza e della prima giovinezza: un amore unilaterale, non corrisposto, senza speranza, per una ragazza, appunto, di Valgreghentino, località, che, né prima né dopo, ho mai sentito nominare in nessun contesto.
Non ci ero mai stato prima di quella sera, neppure "allora", (nei due o tre appuntamenti che lei si era degnata di concedermi per discutere -invano- le mie profferte, ci eravamo sempre visti a Lecco sul lungolago ed io chissà perché mi ero creato, nella mia mente, una Valgreghentino immaginaria: intanto in alto, molto in alto, arcadica ed isolata, lontana dalle grandi vie di comunicazione sul cocuzzolo di una montagna, tipo Civate, per intenderci poi con tanto verde e pochissime abitazioni e, soprattutto... sulle rive di un laghetto prealpino.
Ed ora una delle "certezze" della mia personale mitologia veniva polverizzata da quel cartello stradale piazzato proprio lì in pianura o quasi, in un ambiente molto, troppo, costruito, con una natura non dissimile da quella delle mie parti.
Lo dissi al papà di Sonia e gli raccontai in due parole tutta la storia, che un giorno o l'altro racconterò anche a voi. (1)
Egli rallentò, forse perché eravamo entrati in un centro abitato, forse, chissà per farmi vedere meglio il posto e sorrise.
"La D*** di Valgreghentino? La conosco". -mi disse- "Quarant'anni portati alla grande... è un'ambientalista sfegatata e..."
Di proposito concentrai la mia attenzione sulla strada intasata di macchine, sulla pioggerellina che cominciava a cadere, rigando i vetri dell'auto, su un cane lupo che per poco non tiravamo sotto e non ascoltai le sue parole. Ci sono ricordi che il presente rischia di falsare ed è un gioco che non vale la candela.
Sono contento di non sapere cosa sia successo a Biancaneve dopo il matrimonio col principe o come sia stata la vecchiaia di Tarzan o l'adolescenza di Cappuccetto Rosso, così come mi spiace (anche se ammetto che è un'idiozia) che ad Itaca ci siano discoteche, fast food e villaggi turistici. Ci sono persone (e luoghi) che devono rimanere "quelli" che abbiamo conosciuto e che abbiamo nel cuore. E' un privilegio delle persone "inventate" dagli artisti e mi piace, le poche volte che lo posso fare, estenderlo anche agli umani.
Con un pretesto cambiai discorso, poi, dopo un po', mi misi a cantare sottovoce.
...e lo ricordo questo paese
ragazza bionda, ragazza bella
non ho più in mente le tue parole,
ma quel tuo viso non si cancella...
Per un istante ebbi la tentazione di modificare un aggettivo del secondo verso, esattamente come allora, quando cantavo Donovan e dicevo "Red is the colour of my true love hair" anziché "Yellow is the colour of my true love hair" come ha scritto il trovatore scozzese, ma mi parve banale... e poi se la canzone è di Vecchioni va cantata come lui l'ha scritta, non vi pare?
(1) Ho mantenuto la promessa scrivendo il racconto “La gita” inserito nella raccolta “Ti racconto una canzone”