sabato 23 luglio 2011

BRIGATE ROSSE

A me l'espressione "Brigate Rosse", di primo acchito, non evoca il terrorismo, o gli anni di piombo, la lotta disperata delle istituzioni contro un nemico dapprima invisibile, misterioso e per certi versi invincibile, poi sempre più noto, abbordabile ed alla fine vinto; devo fare un certo sforzo razionale per collegare questo sostantivo e questo aggettivo con la tragica storia degli anni Settanta; nella mia mente alla parola Brigate Rosse si associano invece la luminosa, interminabile estate del 1972, un posto sul lago, tanti adolescenti da cui si staccano, nettissimi nel ricordo, un nome ed un volto: un bel ragazzino alto, magro, la faccia strafottente, gli occhi neri, vivissimi, due baffetti appena accennati su un viso per il resto ancora del tutto imberbe.
E i ricordi dilagano.
Innanzitutto il suo nome: un nome antico, bellissimo, il nome che avrei dato a mio figlio se Dio me ne avesse lasciato fare uno, il nome che ho messo come secondo al figlio che Dio mi ha fatto incontrare... poi il cognome così italiano, sfrecciante, rampante, rosso, rombante e vittorioso.
Sulle prime non mi era risultato simpatico, no, così ispido e spaccone, sempre pronto a piantare qualche grana a me responsabile del campo di lavoro... e ancor oggi non ho capito cosa ci fosse venuto a fare lui, un po' anarchico e un po' zingaro, un po' ateo e un po' disincantato (ma, Santo Iddio, troppo disincantato per i suoi diciassette anni...) in mezzo ad una trentina di adolescenti cattolici, idealisti, borghesi, sognatori, puliti, pasciuti, tanto, troppo diversi da lui; poi col passare dei giorni avevo imparato a prenderlo per il verso giusto e anche lui ci aveva preso gusto a discutere con me di terzo mondo ("è un problema politico, bisogna cambiare la società, altro che latte in polvere, non serve a niente mandar giù il vostro riso e le vostre scatolette di carne"), di politica ("buona la tua sinistra, guarda cosa avete fatto in Polonia, da' retta a me: né Dio, né stato, né padroni.."), di musica ("come fa quella del Della Mea ... “o cara moglie stasera ti prego... di' a mio figlio che vada a dormire... perché le cose che io ho da dire... non sono cose che deve sentir..."), di donne.
Già...le donne.
Ci eravamo presi tutti e due una bella cotta per una ragazzina delle magistrali, una tipa rossa, lentigginosa, timidissima, che veniva da un paesino a casa di Dio, un posto dal nome impronunciabile come uno scioglilingua dalle parti di Lecco e lei lo aveva capito che ne eravamo innamorati e ci aveva detto di no a tutti e due: a me subito, senza la minima esitazione, a lui (come mi confidò lei stessa una volta che la rividi in un bar di Lecco) dopo averci pensato su a lungo.
Forse questa situazione me lo aveva fatto sentire più vicino, o forse chissà, mi ero imposto di non detestarlo per evitare che qualcuno potesse leggere nel mio sentimento una qualche forma di gelosia verso un rivale in amore. O forse ancora mi compiacevo, visto che facevo professione di antirazzismo dalla mattina alla sera, di essere così bravo, buono e cristiano da sopportare, anzi addirittura da riuscire ad instaurare un rapporto con un "diverso".
E diverso lo era davvero rispetto agli altri, meno acculturato, più sguaiato nel ridere e nell'esprimere giudizi, sempre il più duro nel criticare il lavoro che gli proponevamo, ma sempre il più solerte nell'eseguirlo.
Ricordo come si divertiva ogni volta che io usavo come accrescitivo un'espressione che avevo sentito in Francia: dicevo "questo gelato è freddo come una puttana" e lui scoppiava a ridere: "perché, le puttane sono fredde?" Mi arrabbiavo durante un sit in: "questi volantini sono stropicciati come una puttana" e lui sdrammatizzava "perché, le puttane sono stropicciate?"
E ricordo anche un altro particolare: a quei tempi avevo un giubbotto verde marcio da quattro soldi a cui ero affezionatissimo, lo portavo con me dodici mesi all'anno incurante del fatto che la cerniera fosse difettosa e solo lui, oltre a mia mamma sapeva rimettermela a posto quando si incasinava.
Ci salutammo l'ultima sera del campo, la notte di Ferragosto, tra birre e chitarre, occhi lucidi e scambi di indirizzi, coppiette che, beate loro, limonavano al buio e le solite due canzoni che si cantano in queste occasioni: "Il valzer delle candele" e "Adios".
"Abbiamo davanti una vita" mi disse strizzandomi l'occhio ed indicando con un cenno impercettibile la ragazzina dai capelli rossi che si attardava in cucina a pulire una pentola. Poi ci unimmo al coro che echeggiava nel cortile
Ma non addio diciamo allor se uniti resterem
ma non addio diciamo allor che un dì ci rivedrem.
Invece non l'ho più rivisto.
Dieci anni dopo, in un afoso pomeriggio di luglio rintronato dal caldo e dai Mondiali di Spagna, durante l'intervallo di una qualsiasi "Burundi-Nuova Guinea" mi fu catapultato in casa da un'edizione straordinaria del Telegiornale: "Milano è stata oggi teatro di un gravissimo fatto di sangue. Un gruppo di appartenenti alle Brigate Rosse ha aperto il fuoco in una gelateria del centro contro un poliziotto che li aveva riconosciuti. Uno dei terroristi è rimasto gravemente ferito ed è in coma all'ospedale di Niguarda. Si presume che i criminali fossero nel locale per preparare una rapina contro la Banca che ha sede proprio di fronte alla gelateria. Il presidente della Repubblica, subito informato del nuovo gravissimo episodio, eccetera eccetera."
Le immagini svanirono e si tornò alla partita.
Poi, la notte di Ferragosto, sulla spiaggia di Almunecar, in un tripudio di luci, suoni, fuochi artificiali, sangria, angurie, e tutto il più detestabile armamentario della vacanza di massa, un impulso misterioso mi spinse ad accendere la radiolina e a sintonizzarmi su una stazione italiana per ascoltare il giornale radio. Seppi così che tutti erano in ferie, che la giornata era trascorsa serenamente, che il ministro dell'interno aveva passato la giornata al Viminale, infine due notizie flash: alle Egadi era stata segnalata una colonia di meduse, a Milano un terrorista era morto senza riprendere conoscenza dopo trentacinque giorni di coma.
Mi ricordai in quel momento, ed è un ricordo che a volte torna vivido nella mia mente quando meno me lo aspetto, di quella volta che una tromba d'aria aveva sparpagliato per ogni dove la carta, gli stracci ed i rottami e lui si era buttato come un ossesso a salvare il salvabile, mentre gli altri osservavano ammirati o cantavano "We shall overcome".

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