sabato 30 luglio 2011

L'ATTENTATO A TOGLIATTI

Fa caldo questa sera. C'è un'afa che non si respira.
Giù in mezzo alla corte gli uomini discutono animatamente, e il mio Luigi non torna.
Stamattina hanno sparato a Togliatti.
Io non ci capisco niente di politica, come tante donne, del resto, so solo che una volta c'erano i fascisti e a scuola mi dicevano che Mussolini era buono e che avrebbe fatto grande l'Italia. Poi abbiamo visto tutti come è andata a finire: è scoppiata la guerra.
Io non me ne intendo, però ho visto coi miei occhi che la guerra è una cosa tremenda, ben diversa da come me la raccontava da bambina mio padre nel tepore protettivo della stalla: il Carso, il Monte Nero, il Piave ... per me la guerra è stata la fame, la paura dei bombardamenti, i tedeschi fin qui nella corte, i morti per le strade e nei campi, mio fratello Piero portato via prima in Germania, poi in Polonia, che quando è tornato sembrava un mendicante, lui che era il ragazzo più bello, grande e grosso del paese.
Adesso si comincia a stare un po' bene: almeno la notte si dorme senza paura che suoni l'allarme e la domenica si mangia la carne.
L'anno scorso mi sono sposata (e il mio Luigi non torna!), ho trovato lavoro alla Carlo Erba, e adesso la mattina anche traversare tutta Milano in tram non mi fa più paura, abbiamo la radio... certo mi piacerebbe avere una casa tutta per me, anziché stare in questa cascina con mia suocera e mio cognato e la gatta sempre tra i piedi, ma le case non ci sono, cioè forse le case ci sarebbero anche, ma non ce la possiamo permettere.
Guardo dalla finestra e vedo una dozzina di giovanotti col fazzoletto rosso al collo. ("Partigiani del dopoguerra" li chiama il mio Luigi che non li può vedere, perché dice che prima del 25 aprile se ne stavano imboscati e adesso vanno a spasso tutto il giorno invece di lavorare e la domenica sono sempre alla Casa del Popolo e il mio Luigi ha detto che, finché ci stanno quelli, lui lì dentro non ci mette più piede). Cantano a squarciagola, mentre la maggior parte degli uomini li ignora e continua a discutere. (Tutti gli uomini stasera sono giù nella corte e il mio Luigi non torna!)
La canzone che cantano è triste, ma nelle loro voci c'è una rabbia che mette i brividi.
Vi ricordate quel diciotto aprile
di aver votato i democristiani
senza pensare all'indomani
a rovinare la gioventù?
Il diciotto aprile anch'io ho votato i democristiani, perché il don Carlo ha detto che se vincevano i comunisti avrebbero ammazzato tutti i preti, gli avrebbero tagliato le braccia e le gambe come hanno fatto in Russia; dice che i comunisti sono cattivi, sono dei senzadio, non hanno rispetto di niente e di nessuno, e però il mio Luigi è comunista e lui del male non ne ha mai fatto a nessuno, lui dice sempre che il comunismo è pane, pace e lavoro per tutti, come in Russia (e intanto stasera non torna!).
Io ho votato per la Democrazia, perché non si sa mai, però Togliatti mi sembra una brava persona, si vede che ha studiato: fine, educato, onesto; siamo andati a sentirlo una domenica appena sposati, alla festa dell'Unità al Parco Lambro e mi sembrava proprio una persona perbene.
E gli hanno sparato, poveretto.
Sarà stato uno che gli vuol male, i fascisti, o qualche padrone che non vuole che continui a darsi da fare per noi operai.
Oggi sul 34 dicevano che è stato De Gasperi, ma io non ci credo; diceva il don Carlo che è una brava persona anche lui, e di chiesa, e ha due bambine...
E stasera il mio Luigi non torna e la gente che continua a discutere giù in corte mi sembra agitata, come quando è scoppiata la guerra, come la sera in cui hanno arrestato Mussolini e sembrava che la guerra dovesse finire da un momento all'altro e poi sono arrivati i tedeschi e le brigate nere. In certi momenti mi sembra di sentire che parlano di Bartali e del Giro di Francia, ma poi gira e rigira il discorso torna su Togliatti e che bisogna stare attenti e le armi e i partigiani e certi discorsi che non capisco.
Speriamo che non venga un'altra guerra o che non torni su il fascismo, perché io non voglio sentire ancora le sirene di notte e l'odore dei rifugi e mangiare la farina di castagne, che mi dà il voltastomaco solo a vederla e se viene un'altra guerra stavolta ce ne sono altri due di miei fratelli che partono, oltre al Piero che è già militare, sì, perché quando è tornato dalla Polonia mica lo hanno lasciato in pace, no, hanno detto che si era arruolato volontario coi fascisti (proprio il Piero che non li ha mai potuti vedere e in mente aveva solo l'Inter e le morose) e lo hanno mandato di nuovo a soldato negli alpini.
Stasera verso le cinque, dal salumiere, la Gianna mi aveva detto che probabilmente il mio Luigi era in sezione, ma ho chiesto all'Ernesto che è appena tornato a casa, giusto il tempo di mangiare un boccone e via, e mi ha detto che al partito non si è visto e che deve essere ancora in fabbrica. Adesso uno che è appena venuto a casa dalla Max Meyer mi ha detto una cosa che non riesco a capire: il mio Luigi è rimasto in fabbrica con gli altri della commissione interna ad occupare la ditta, ma glielo ha chiesto il padrone, dice che si sente più tranquillo con la fabbrica occupata dai suoi operai che dagli estranei.
Ci mancherebbe che si fermasse lì anche a dormire, con tutto quello che succede in queste ore. E poi io devo dirgli una cosa importante, non l'ho detta neanche a mia mamma e a mia suocera, perché deve essere lui il primo a saperla: aspetto un bambino.
Sono sicura che sarà una femmina. Lo sento. Le comprerò dei bei vestitini al mercato, le farò crescere i capelli, quando sarà grande porterà la mia collana di granatine che è stata di mia mamma, e di mia nonna, e, prima ancora, della bisnonna.
La chiamerò Gabriella.
E se fosse un maschio?
Nella famiglia del mio Luigi il primo figlio porta sempre il nome del nonno quindi dovrei chiamarlo Enrico. Come suo nonno e il nonno di suo nonno... solo che... io vorrei che fosse diverso da quelli che sono venuti prima di lui.
Nessuno credeva che il mio Luigi sarebbe riuscito a trovare un lavoro il giorno che ha detto a suo padre che non voleva fare il contadino, invece si è cercato un posto da meccanico, ce l'ha fatta e tutta la corte lo ha guardato con invidia, perché oggi lo fanno in tanti, ma vent'anni fa ci voleva un coraggio da leoni.
E se il mio Luigi è stato il primo della sua famiglia che non ha fatto il contadino, perché il mio bambino non potrebbe essere il primo della famiglia a studiare? Se sarà un maschio lo farò studiare. Voglio che si distingua dagli altri bambini della corte, anche nel nome.
Lo chiamerò Silvano.

sabato 23 luglio 2011

BRIGATE ROSSE

A me l'espressione "Brigate Rosse", di primo acchito, non evoca il terrorismo, o gli anni di piombo, la lotta disperata delle istituzioni contro un nemico dapprima invisibile, misterioso e per certi versi invincibile, poi sempre più noto, abbordabile ed alla fine vinto; devo fare un certo sforzo razionale per collegare questo sostantivo e questo aggettivo con la tragica storia degli anni Settanta; nella mia mente alla parola Brigate Rosse si associano invece la luminosa, interminabile estate del 1972, un posto sul lago, tanti adolescenti da cui si staccano, nettissimi nel ricordo, un nome ed un volto: un bel ragazzino alto, magro, la faccia strafottente, gli occhi neri, vivissimi, due baffetti appena accennati su un viso per il resto ancora del tutto imberbe.
E i ricordi dilagano.
Innanzitutto il suo nome: un nome antico, bellissimo, il nome che avrei dato a mio figlio se Dio me ne avesse lasciato fare uno, il nome che ho messo come secondo al figlio che Dio mi ha fatto incontrare... poi il cognome così italiano, sfrecciante, rampante, rosso, rombante e vittorioso.
Sulle prime non mi era risultato simpatico, no, così ispido e spaccone, sempre pronto a piantare qualche grana a me responsabile del campo di lavoro... e ancor oggi non ho capito cosa ci fosse venuto a fare lui, un po' anarchico e un po' zingaro, un po' ateo e un po' disincantato (ma, Santo Iddio, troppo disincantato per i suoi diciassette anni...) in mezzo ad una trentina di adolescenti cattolici, idealisti, borghesi, sognatori, puliti, pasciuti, tanto, troppo diversi da lui; poi col passare dei giorni avevo imparato a prenderlo per il verso giusto e anche lui ci aveva preso gusto a discutere con me di terzo mondo ("è un problema politico, bisogna cambiare la società, altro che latte in polvere, non serve a niente mandar giù il vostro riso e le vostre scatolette di carne"), di politica ("buona la tua sinistra, guarda cosa avete fatto in Polonia, da' retta a me: né Dio, né stato, né padroni.."), di musica ("come fa quella del Della Mea ... “o cara moglie stasera ti prego... di' a mio figlio che vada a dormire... perché le cose che io ho da dire... non sono cose che deve sentir..."), di donne.
Già...le donne.
Ci eravamo presi tutti e due una bella cotta per una ragazzina delle magistrali, una tipa rossa, lentigginosa, timidissima, che veniva da un paesino a casa di Dio, un posto dal nome impronunciabile come uno scioglilingua dalle parti di Lecco e lei lo aveva capito che ne eravamo innamorati e ci aveva detto di no a tutti e due: a me subito, senza la minima esitazione, a lui (come mi confidò lei stessa una volta che la rividi in un bar di Lecco) dopo averci pensato su a lungo.
Forse questa situazione me lo aveva fatto sentire più vicino, o forse chissà, mi ero imposto di non detestarlo per evitare che qualcuno potesse leggere nel mio sentimento una qualche forma di gelosia verso un rivale in amore. O forse ancora mi compiacevo, visto che facevo professione di antirazzismo dalla mattina alla sera, di essere così bravo, buono e cristiano da sopportare, anzi addirittura da riuscire ad instaurare un rapporto con un "diverso".
E diverso lo era davvero rispetto agli altri, meno acculturato, più sguaiato nel ridere e nell'esprimere giudizi, sempre il più duro nel criticare il lavoro che gli proponevamo, ma sempre il più solerte nell'eseguirlo.
Ricordo come si divertiva ogni volta che io usavo come accrescitivo un'espressione che avevo sentito in Francia: dicevo "questo gelato è freddo come una puttana" e lui scoppiava a ridere: "perché, le puttane sono fredde?" Mi arrabbiavo durante un sit in: "questi volantini sono stropicciati come una puttana" e lui sdrammatizzava "perché, le puttane sono stropicciate?"
E ricordo anche un altro particolare: a quei tempi avevo un giubbotto verde marcio da quattro soldi a cui ero affezionatissimo, lo portavo con me dodici mesi all'anno incurante del fatto che la cerniera fosse difettosa e solo lui, oltre a mia mamma sapeva rimettermela a posto quando si incasinava.
Ci salutammo l'ultima sera del campo, la notte di Ferragosto, tra birre e chitarre, occhi lucidi e scambi di indirizzi, coppiette che, beate loro, limonavano al buio e le solite due canzoni che si cantano in queste occasioni: "Il valzer delle candele" e "Adios".
"Abbiamo davanti una vita" mi disse strizzandomi l'occhio ed indicando con un cenno impercettibile la ragazzina dai capelli rossi che si attardava in cucina a pulire una pentola. Poi ci unimmo al coro che echeggiava nel cortile
Ma non addio diciamo allor se uniti resterem
ma non addio diciamo allor che un dì ci rivedrem.
Invece non l'ho più rivisto.
Dieci anni dopo, in un afoso pomeriggio di luglio rintronato dal caldo e dai Mondiali di Spagna, durante l'intervallo di una qualsiasi "Burundi-Nuova Guinea" mi fu catapultato in casa da un'edizione straordinaria del Telegiornale: "Milano è stata oggi teatro di un gravissimo fatto di sangue. Un gruppo di appartenenti alle Brigate Rosse ha aperto il fuoco in una gelateria del centro contro un poliziotto che li aveva riconosciuti. Uno dei terroristi è rimasto gravemente ferito ed è in coma all'ospedale di Niguarda. Si presume che i criminali fossero nel locale per preparare una rapina contro la Banca che ha sede proprio di fronte alla gelateria. Il presidente della Repubblica, subito informato del nuovo gravissimo episodio, eccetera eccetera."
Le immagini svanirono e si tornò alla partita.
Poi, la notte di Ferragosto, sulla spiaggia di Almunecar, in un tripudio di luci, suoni, fuochi artificiali, sangria, angurie, e tutto il più detestabile armamentario della vacanza di massa, un impulso misterioso mi spinse ad accendere la radiolina e a sintonizzarmi su una stazione italiana per ascoltare il giornale radio. Seppi così che tutti erano in ferie, che la giornata era trascorsa serenamente, che il ministro dell'interno aveva passato la giornata al Viminale, infine due notizie flash: alle Egadi era stata segnalata una colonia di meduse, a Milano un terrorista era morto senza riprendere conoscenza dopo trentacinque giorni di coma.
Mi ricordai in quel momento, ed è un ricordo che a volte torna vivido nella mia mente quando meno me lo aspetto, di quella volta che una tromba d'aria aveva sparpagliato per ogni dove la carta, gli stracci ed i rottami e lui si era buttato come un ossesso a salvare il salvabile, mentre gli altri osservavano ammirati o cantavano "We shall overcome".