venerdì 30 dicembre 2011

Da Ti racconto una canzone: UNA STORIA GIA' FINITA


UNA STORIA GIA’ FINITA

Un fatto che pochi conoscono, anche tra i miei amici più cari, è che io sono stata sposata. E’ una vicenda di cui non parlo mai, una vicenda che mi ha lasciato tanta amarezza nel cuore, ma sono stata io a troncare: è una decisone che mi sono imposta di prendere, sia pure a malincuore.
Quando ho lasciato definitivamente quella che per mesi era stata la nostra casa ho provato una sensazione di angoscia: il muro spoglio (le grandi fotografie sotto vetro erano tutte mie e me le sono portate via)… il frigo vuoto… il rubinetto dell’acqua chiuso…
A volte mi torna in mente Salvatore, il mio ex marito. Lo rivedo la mattina trasandato, spettinato, assonnato, prepararsi il caffè in mutande imprecando conto il maltempo (o contro il troppo sole) contro il freddo (o contro il caldo) contro la città invasa dai turisti (o contro la tristezza di una Catania autunnale senza forestieri)…  Vederlo così scorbutico e depresso già di prima mattina mi metteva a disagio, mi si chiudeva stomaco e allora restavo a letto, non riuscivo a trovare la forza di alzarmi, cercando di rinviare il momento del primo scontro giornaliero.
Mi hanno detto che Salvatore convive con una ragazza del Nord. Non riesco a pensarlo mentre fa l’amore con una donna diversa da me, mi piacerebbe sapere che impressione gli ha fatto la prima volta… forse avrà pensato che chiodo scaccia chiodo… forse dopo essere stato con me (la prima donna della sua vita, checché ne dicesse lui) non sarà più riuscito  a vivere senza sesso…
Già, il sesso. Negli ultimi tempi non lo facevamo più, ed è uno dei motivi per cui odio quella casa e cerco di non passarci neppure davanti:  la vita a due si era trasformata in un inferno; incomprensioni, insulti, ripicche, accuse:  lui non riusciva più a lavorare e dava la colpa a me, io continuavo a piangere e davo la colpa a lui, un’esperienza che non auguro a nessuno.
E’ fin banale dire che l’amore era finito, ma forse non ci siamo mai amati, altrimenti non ci saremmo ridotti così. Oddio, io ero in buonafede quando dicevo che lui era tutta la mia vita, mi sforzavo di idealizzare alcuni aspetti della sua personalità che mi avevano affascinata nei primi tempi; ma lui tendeva a razionalizzare tutto, a riportarmi sulla terra, a rendere piatto e banale tutto quanto io ammantavo di sogni e di poesia.
Una volta lui era tornato da un viaggio ed io gli avevo detto: “guarda, amore, i fiori sul balcone sono appassiti, anche loro come me quando sei via tu sentono la tua mancanza” e lui mi aveva risposto cupo “i fiori appassiscono perché quando sono via io c’è una stronza che non li bagna”
Un’altra volta viaggiavamo in autostrada e chissà perché mi venne da dire che la nostra utilitaria era il nostro cavallo bianco. Mi lanciò un’occhiataccia, sbuffò spazientito e poi mi rispose “allora anziché la benzina prova a dargli la biada, che costa anche meno”.
Io in questi casi rimanevo male, anche se da un punto di vista logico finivo per dargli ragione, ma proprio per questo concludevo che se la mia vita doveva essere così brutalmente realistica e senza sogni, allora tanto valeva viverla senza di lui e così ho fatto.
Eppure, se devo essere sincera, questa storia per me non è mai finita. Tante volte da bambina nel mio giardino strappavo i fiori, ma il sole li faceva ricrescere più belli; tante sere spengo la televisione spengo il computer, mi metto sul divano e lascio galoppare la fantasia. Lo vedo a letto con quella milanese, eccitato, sudato, scatenato nel fare l’amore in maniera quasi selvaggia, ma, particolare importantissimo, sempre con gli occhi chiusi; poi all’improvviso, quando sta per raggiungere il massimo del godimento, urla un nome di donna, ma non è il nome della sua partner e neppure il nome dell’eroina dell’ultimo libro che ha letto. Il nome che gli esce dalla gola è un nome che il suo cuore non è mai riuscito a scordare.
Mi irritava, Dio se mi irritava, ma, ogni volta che io mi arrabbiavo, regolarmente mi ripeteva “cerca di stare più calma, tanto prima o poi si muore” ed io mi sentivo come la signora Pantier di Masters, un personaggio che al liceo avevo anche interpretato in una rappresentazione teatrale.
“Piantala di parlare della morte” gli urlavo.
E lui “Piantala tu di sfuggire alla realtà. Prima o poi tutti si muore. Solo i personaggi vivono in eterno, dovresti saperlo tu che ami Pirandello”.
Prima ho detto una sciocchezza. In realtà la nostra storia è finita. E’ “morta”, per usare un verbo che gli è caro.
 Scusatemi se stasera ve ne ho parlato.
L’ho fatto per illudermi di riportarla in vita almeno per un attimo.


Una storia già finita
(Gerardina Trovato)

Come è triste un muro bianco senza foto
solo con i buchi e i chiodi che si vedono
come è triste il frigo così vuoto
e l'acqua chiusa.
Ti prepari ancora il tuo caffè in mutande
la mattina presto mentre dormi in piedi?
io me ne restavo a letto perché stavo male
e tu lo sapevi

Amore mio
chissà a te come è andata
la prima volta dentro un'altra donna che non ero io
amore mio
l'hai fatto per dimenticare
o perché a te non può mancare
quello che sai di non aver avuto mai.

Non ci sono più tornata in quella casa
dove non lo facevamo, ricordi, ormai da tempo
solo inferno tra noi due
io che piangevo
e tu non lavoravi più
Ma chissà se tra noi due qualcuno ha mai amato
eppure ero sincera quando ti dicevo "sei la vita"
ma poi la tua ragione distruggeva tutto
ed io pensavo: vivrei anche senza te

Amore mio
anche se strappi un fiore
ricrescerà più bello perché ancora esiste il sole
e quando a letto sbaglierai il suo nome
non sarà un nome preso da un libro
ma il nome che il tuo cuore non ha cancellato mai.

Mi dicevi "stai più calma, tanto prima o poi si muore"
solo un personaggio, diceva Pirandello,
può vivere in eterno
e quindi se una storia già finita diventa una canzone
anche per un momento sarà di nuovo vita.

Questa canzone è stata incisa da Gerardina Trovato
 
 

venerdì 23 dicembre 2011

Da Ti racconto una canzone FIUME SAND CREEK

FIUME SAND CREEK
 
Signore e signori buonasera a tutti. Leggo la delusione sui vostri volti. Del resto sono abituato da anni a notare quando
salgo alla ribalta un certo disappunto sul  viso di chi mi ascolta. Vi aspettavate che dicessi “augh visi pallidi…” così come
vi turba il fatto che stasera io sia venuto a questa conferenza in automobile, anziché a cavallo… E anche il fatto che io 
vesta come voi, che non indossi un copricapo piumato, o che non abbia il viso truccato con l’ ocra. Ma io ormai mi sono 
rassegnato ad essere un cittadino americano, i miei figli si sono inseriti nella vostra società e lavorano pulendo i vetri dei 
cosiddetti grattacieli. Io invece giro l’America da cinquant’anni raccontando a tutti un fatto che mi vide testimone oculare 
quando avevo otto anni. Io sono uno dei pochi sopravvissuti al massacro di Sand Creek. Sì, signori, io c’ero quel 
maledetto 29 novembre 1864.
Ci eravamo accampati lì, noi Cheyenne e un gruppo di Arapaho, perché così ci era stato ordinato dal governatore del 
Colorado. In cambio ci era stata promessa la pace. Eravamo quasi tutti donne e bambini. I nostri guerrieri, sempre su 
consiglio dei politici e dei militari, si erano spostati di qualche miglio a caccia di bisonti. Era una notte di novilunio, e noi 
dormivamo tranquilli. L’unica presenza dell’uomo bianco era un dollaro d’argento caduto sul fondo del Sand Creek. 
Noi bambini ci eravamo chiesti se valesse la pena di tuffarsi e prenderlo, ma non era roba nostra, inoltre non avremmo 
saputo cosa farcene. 
Il Sand Creek all’epoca era così limpido e cristallino che pareva che i pesci ci sguazzassero allegramente. Mio nonno 
diceva che tendendo bene l’orecchio ed avendo la giusta disposizione d’animo si poteva ascoltare sul fondo il loro canto. 
Nel cuore della notte alcune nostre squaw sentirono dei rumori; dapprima gridarono che si trattava di una mandria di bisonti, 
ma ci volle poco a capire che stavano arrivando dei soldati. Non erano truppe regolari, erano i volontari del terzo reggimento 
del Colorado, gentaglia, ubriaconi, banditi, avventurieri. Quasi tutti erano ubriachi fradici. Li comandava il colonnello 
Chivington che all’epoca aveva quarantatré anni, ma ne mostrava venti: alto, freddo nella sua giacca azzurra, dello stesso 
colore dei suoi occhi. Il responsabile del campo, Pentola Nera, tirò fuori una grande bandiera americana e cominciò a gridare 
“non abbiate paura, non ci faranno del male, ce lo ha confermato l’altro giorno il colonnello Greenwood. L’uomo bianco ci 
rispetterà sempre finché noi rispetteremo la bandiera a stelle e strisce”. L’altro responsabile del campo, Antilope Bianca, un 
vecchio di settantacinque anni andò incontro alle truppe. Era uno dei pochi Cheyenne  a parlare un ottimo inglese e disse ai 
soldati di fermarsi. Un colpo di fucile lo fulminò. Prima di morire lo sentirono cantare il nostro canto di morte: “Niente vive a 
lungo se non la terra e le montagne”.
 
Intanto io mi ero svegliato. I soldati che avevano circondato l’accampamento erano scesi da cavallo e sparavano su tutto 
quello che si muoveva. Si accanivano anche sui morti: strappavano loro lo scalpo; a colpi di coltello gli staccavano i genitali 
(seppi molti anni dopo che li usavano per farne borse per il tabacco) Mio nonno mi trascinò in una buca. Io piangevo “non 
può essere vero, è un sogno, un brutto sogno” dicevo. “Sì, rispondeva mio nonno, è solo un brutto sogno”. Continuavo a 
chiudere gli occhi e a riaprirli, ma l’incubo non cessava. Le donne erano a terra orribilmente sfigurate, i bambini venivano 
afferrati (qualcuno già morto, qualcuno ancora  vivo) e gettati nelle acque gelide del Sand Creek. Una mia cuginetta di quattro 
anni si era nascosta nella sabbia, ma due soldati la scovarono. La legarono ad un carro e cominciarono su di lei un orribile 
tiro a segno. In quel momento passò il colonnello Chivington. I soldati, imbarazzati,  si fermarono. “Bravi ragazzi, sono fiero 
di voi. Continuate a giocare- disse Chivington- ammazzate anche i neonati. Le uova di pidocchio generano pidocchi”. Ero 
teso e spaventato. Dal naso mi colava sangue, ma io non ci feci caso. Mi ricordai in quel momento di un rito che mio padre 
mi aveva insegnato per i momenti in cui mi fossi trovato in difficoltà. Presi l’arco e le frecce che mio nonno aveva con sé e 
che ovviamente non usava e cominciai a tirare: la prima freccia verso il cielo per far respirare gli spiriti buoni… la seconda 
freccia verso il vento per far sanguinare gli spiriti cattivi… la terza freccia… ma sbagliai la mira e la terza freccia cadde nel letto 
del Sand Creek.
Un esercito disciplinato ed organizzato ci avrebbe massacrati tutti, ma ormai i bianchi erano troppo ubriachi, troppo eccitati, 
troppo intenti a strappare genitali ai morti e ad appuntarseli sui cappelli, per cui in molti riuscimmo a nasconderci. All’alba, 
in uno scenario allucinante di tende capovolte, cani e fumo, strisciando fuori dalle buche in cui ci eravamo riparati, incuranti 
del sangue che si era congelato sulle nostre ferite, riuscimmo a fuggire e, guidati da Pentola Nera, con una marcia di ottanta 
chilometri raggiungemmo i nostri uomini. Quella notte perdemmo poco meno di cinquecento persone; i bianchi ebbero nove 
morti e trentotto feriti, tutti colpiti dal cosiddetto fuoco amico, in quanto nessuno di noi aveva sparato, sia perché non eravamo 
in grado di farlo, sia, soprattutto, perché avevamo dato la nostra parola al colonnello Greenwood.
Appena ci ritrovammo, noi Cheyenne con gli Arapaho e i Sioux, pregammo gli Spiriti della prateria di aiutarci e di vendicare 
l’infamia che avevamo subito. Non c’è bisogno che vi dica, perché tutti lo sapete ed è scritto nei vostri libri, che dodici anni 
dopo ci fu la battaglia di Little Big Horn, dove con l’aiuto del Grande Spirito annientammo un nemico ancora più crudele e 
terribile di Chivington. A proposito di Chivington: passando da quelle parti ho visto che avete dato il suo nome ad una città, 
mentre in tutto il Colorado nulla ricorda il sacrificio della mia gente. Del resto è la scelta logica di una sedicente civiltà che 
ha fatto violenza alla natura, ai fiumi, ai laghi, all’aria… che ha ucciso i bisonti non per mangiare come abbiamo fatto noi 
per millenni, ma per il puro gusto di ucciderli.  E questo lo spirito del bisonte non ve lo perdonerà mai.
La nostra vita da quel giorno è cambiata. Siamo prigionieri di riserve anguste, ma più ancora prigionieri dell’alcol e della 
nostalgia di un mondo a misura d’uomo, pulito, naturale. E la vostra vita? In questi giorni sento tanto parlare di crisi, di 
crollo della borsa, di azioni che valgono migliaia di dollari e che dopo pochi minuti tornano ad essere quello che erano 
oggettivamente: insignificanti pezzetti di carta. Da un capo all’altro del paese che fu nostro e che voi ci avete strappato, 
banche, negozi, fabbriche chiudono e la gente muore di fame. E’ capitato anche a noi, ma nessuno può dire che fosse 
colpa nostra. Sarebbe fantastico se questo mondo di carbone, ferro, petrolio, città enormi, odori nauseabondi crollasse 
come un castello di carte e se l’uomo potesse tornare a vivere a contatto con la natura come ha fatto per millenni. 
E chissà che in futuro non sia così. Chi può conoscere i disegni del Grande Spirito? Uomo bianco ricorda quello 
che ti dico: quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato, l’ultimo pesce catturato, solo allora 
ti accorgerai che i soldi non si possono mangiare.
 
NOTA: per la documentazione storica ho utilizzato in particolare i seguenti siti: 
http://www.viadelcampo.com/html/fiume_sand_creek.html
http://www.geocities.com/CapitolHill/2638/successe.htm 
http://www.farwest.it  
 
 
Fiume Sand Creek
(Fabrizio de André)
 
Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
fu un generale di vent'anni occhi turchini e giacca uguale
fu un generale di vent'anni figlio d'un temporale.
C'è un dollaro d'argento sul fondo del Sand Creek.
 
I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte
e quella musica distante diventò sempre più forte
chiusi gli occhi per tre volte, mi ritrovai ancora lì
chiesi a mio nonno è solo un sogno, mio nonno disse sì.
A volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek.
 
Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso
il lampo in un orecchio nell'altro il paradiso
le lacrime più piccole, le lacrime più grosse
quando l'albero della neve fiorì di stelle rosse.
Ora i bambini dormono nel letto del Sand Creek.
 
Quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte
c'erano cani e fumo e tende capovolte
tirai una freccia in cielo per farlo respirare
tirai una freccia al vento per farlo sanguinare.
La terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek.
 
Si son presi i nostri cari sotto una coperta scura
sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
fu un generale di vent'anni occhi turchini e giacca uguale
fu un generale di vent'anni figlio d'un temporale.
Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek.
 
Questa canzone è stata incisa da Fabrizio De André, Mia Martini, Ligabue.
 
 

venerdì 16 dicembre 2011

Da Ti racconto una canzone:  4.3.43

Osteria numero uno paraponziponzipò
al casino non c’è nessuno; paraponziponzipò:
ci son solo preti e frati che si *** beati
dàghela ben biondina, dàghela ben biondà.

Osteria numero due; paraponziponzipò
le mie gambe con le tue; paraponziponzizipò:
le tue gambe con le mie fanno mille porcherie
dàghela ben biondina, dàghela ben biondà.

E potrei andare avanti a cantarle tutte queste meravigliose strofe di taverna che io mi porto nel cuore… sono le prime note che ho sentito in vita mia, la canzone che la mia mamma mi cantava quand’ero bambino per farmi giocare davanti alle banchine del porto, mentre mi mostrava le grandi navi da carico o per farmi addormentare la sera nelle lunghe sere del coprifuoco e dell’oscuramento. Io sono il figlio della Gianna Parodi, la ragazzina che perse entrambe i genitori nel primo bombardamento aereo su Genova. Altri parenti non ne aveva e quindi dovette arrangiarsi. A quindici anni si trovò a vivere da sola; serviva in una bettola di via del Campo e quando aveva un momento libero si inerpicava nell’entroterra, risalendo il greto del Bisagno per acquistare un po’ di ricotta che mangiava a cena, quando non la vendeva per comprarsi quelle poche cose di cui aveva bisogno. E fu proprio nell’entroterra che in un fresco pomeriggio di marzo conobbe un soldato ventenne. Si era fermata a bere dell’acqua ad una fontana, lui si staccò da un gruppetto di militari in libera uscita, si avvicinò a lei, le fece segno che voleva bere, lei gli porse una brocca… e fu amore a prima vista. Anche se parlavano lingue differenti, anche se lui veniva da un posto lontano, di là dal mare, i due capirono, o forse parve loro di capire, di essere fatti uno per l’altra. Me ne parlò una volta con pudore, delicatezza e tanta nostalgia, quando io avevo dodici anni, poco prima che lei morisse: dapprima un gioco di sguardi, di tenerezze, poi un’ora dolcissima d’amore su un prato verde come non penseresti di trovarne a pochi chilometri dal mare. Il giorno dopo avrebbero dovuto rivedersi, ma lui non venne all’appuntamento. Una raffica di mitra sparata da un camion nemico aveva spezzato per sempre la sua prima ed unica storia d’amore.
Mia madre, quando lo venne a sapere, pianse e si disperò, e la sua disperazione aumentò il mese successivo quando si accorse di essere incinta.
Il padrone della taverna in cui andava a servizio (e che per carità le aveva permesso di occupare una stanzetta sopra il locale) mi raccontò che la mamma ebbe una forte regressione: la ragazza cresciuta troppo presto tornò bambina. Per tutti i nove mesi mi aspettò come da piccola aspettava il regalo di Natale. Io dopo tutto ero il regalo del suo grande amore.
Nacqui il giorno del suo sedicesimo compleanno. La mamma, a quanto ho sentito raccontare qui al porto, aveva un solo vestito e lo portava da anni; lei cresceva e l’abitino diventava sempre più corto. Con l’unica canzone che conosceva, le Osterie, che sentiva cantare mentre serviva il vino ai clienti, mi cullò, mi fece ridere e giocare, mi fece addormentare. Ecco perché vi dicevo all’inizio che adoro questa canzone.
Nella sua cameretta c’era un piccolo quadro raffigurante la Madonna col Bambino. La mamma non aveva mai fatto caso a quel quadro, ma ora che anche lei aveva un bambino passava ore ed ore ad osservarlo con curiosità. E nel momento in cui mi cullava o mi fasciava, stringendomi al suo petto (di cui mi sembra, ma forse è una suggestione che mi sono creata io nella mia mente, di ricordare il sapore aspro e salmastro come quello che si respira nella zona del molo vecchio)  si sentiva in sintonia con la Signora del ritratto; diciamo che giocava ad imitarla: lei era la Madonna, io ero il Bambino.
Quando si trattò di darmi un nome non ebbe la minima esitazione, non conoscendo il nome del papà la mamma continuò nel suo gioco (o forse, chissà, fu quello il suo personalissimo modo per affidarmi con amore alla Vergine Maria)
La mia mamma è morta da tanti anni; una febbre improvvisa se l’è portata via dopo una vita di stenti e di miseria. Di lei mi restano pochi ricordi: non ho una sua foto, né documenti, né lettere. Il ricordo più grosso che mi ha lasciato è questo nome così insolito.
Io ho fatto il mozzo sui bastimenti, poi lo scaricatore di porto, ora mi arrangio con qualche furtarello e  con il contrabbando di sigarette nella zona di via Gramsci.
Ormai ho sessant’anni: anche se viaggiando un po’ di esperienza del mondo me la sono fatta, resto un uomo del popolo semplice e un po’ rozzo: bestemmio… gioco a carte… spesso mi sbronzo… appena mi girano quattro soldi vado a puttane… eppure nessuno ha mai pensato di chiamarmi con un nome o con un soprannome diverso.
Per  tutti io mi chiamo solo ed esclusivamente Gesù Bambino.


NOTA STORICA:  Questa canzone in origine si chiamava “Gesù Bambino”, ma la RAI impose di cambiare il titolo e parte del testo (io per il mio racconto mi sono ispirato al testo originale, salvo che in un punto che io trovo decisamente infelice e che lo stesso Dalla non sempre riprende: “mi accettò come un dono d’amore solo all’ultimo mese”). La necessità di trovare rapidamente un nuovo titolo spinse gli autori a chiamare la canzone senza pensarci troppo “4.3.1943” che è la data di nascita di Lucio Dalla: ma nel marzo 1943 in Italia non c’erano soldati stranieri, men che meno americani (lo sbarco in Sicilia come è noto avvenne in luglio). Che il soldato sia americano si può facilmente dedurre sia dall’espressione “veniva dal mare” sia dalla musica che nel finale abbandona il folk italiano a favore di un ritmo jazz-boogie. Nel mio racconto ho cercato di restare sulle generali evitando di proposito imbarazzanti riferimenti storici.


4.3.1943
(Paola Pallottino per Lucio Dalla)

Dice che era un bell'uomo e veniva, veniva dal mare
parlava un'altra lingua, però sapeva amare
e quel giorno lui prese a mia madre sopra un bel prato
l'ora più dolce prima di essere ammazzato.

Così lei restò sola nella stanza, la stanza sul porto
con l'unico vestito ogni giorno più corto
e benché non sapesse il nome e neppure il paese
mi aspettò come un dono d'amore fin dal primo mese.

Compiva 16 anni quel giorno la mia mamma
le strofe di taverna le cantò a ninna nanna
e stringendomi al petto che sapeva, sapeva di mare
giocava alla Madonna con il bimbo da fasciare.

E forse fu per gioco o forse per amore
che mi volle chiamare come Nostro Signore
Della sua breve vita il ricordo, il ricordo più grosso
è tutto in questo nome che io mi porto addosso.

E ancora adesso che bestemmio e bevo vino
io per ladri e puttane mi chiamo Gesù Bambino.

Questa canzone è stata incisa da Lucio Dalla, dall’Equipe 84 e, in portoghese da Chico Buarque de Hollanda.


venerdì 9 dicembre 2011

Da Ti racconto una canzone": ANGELA



ANGELA

Dal “Secolo XIX”di martedì 26 aprile: Permangono disperate le condizioni di Angela V., la commessa ventitreenne che ieri ha tentato il suicidio ingerendo una forte dose di barbiturici nella sua abitazione di Vico Nereo 4 a Nervi. La ragazza è ricoverata in stato di coma nel reparto di rianimazione dell’Ospedale San Martino. Si ignorano i motivi del tragico gesto. La ragazza è assistita giorno e notte dal fidanzato che si rifiuta di abbandonare l’ospedale.

“Ascoltami, Angela, lo so che non puoi sentirmi; ma io mi illudo lo stesso che tu possa capire quanto ti sto dicendo. Devi sentirmi, angelo mio. Si può sapere perché lo hai fatto? Io davvero non riesco a capacitarmi. Ma che motivo avevi? Non eravamo felici insieme tu ed io?
Però, pensandoci bene… in questo momento mi viene un dubbio atroce. Non sarà mica perché l’altra sera ti ho detto che voglio lasciarti? Ma davvero, sciocchina, hai creduto che io parlassi seriamente? Io, vedi, sono un po’ strano, ormai dovresti saperlo, ho dentro me una componente sadica: ti ho detto che ti avrei lasciata, che questo incontro sarebbe stato l’ultimo, così, solo per farti soffrire. Non so che dirti: mi piace da matti vederti piangere; le lacrime ti dànno un fascino incredibile… e poi… la tua reazione alle mie parole  mi ha fatto capire una cosa bellissima: che sono importante per te, che la tua vita è nelle mie mani.
Io avevo messo in conto che saresti andata via piangendo, che avresti passato una notte agitata, ma la mattina dopo avevo già programmato di telefonarti, di dirti che tutto era uno scherzo… ti avrei portata a mangiare da Aurelio, poi saremmo andati sulla passeggiata a mare che a te piace tanto e la sera in piscina a vedere la partita di pallanuoto, e anche lì avrei finto di tifare per il Recco, conoscendo il tuo odio per questa squadra e il grande amore che hai per il Nervi.
Invece stasera tu non stai piangendo: hai un viso strano… non mi riconosci… da un momento all’altro puoi allontanarti definitivamente da me.
Angela, ti prego, non puoi andartene, credo che non riuscirei a vivere senza di te.
Non lo trovo giusto! Non puoi lasciarmi da solo!!  Non posso perderti… perdere tutto!!! Scusami se alzo la voce, ma devi assolutamente sentire queste parole. Sai cosa sto pensando con orrore? che quelle che io ti sto dicendo sono le stesse cose che hai pensato tu ieri sera”.



Angela
(Luigi Tenco)

Angela, Angela, angelo mio
io non credevo che questa sera
sarebbe stato davvero un addio,
Angela credimi, io non volevo.
Angela, Angela, angelo mio
quando t'ho detto che voglio andarmene,
volevo solo vederti piangere,
perché mi piace farti soffrire.
Volevo farti piangere
vedere le tue lacrime
sentire che il tuo cuore
è nelle mie mani.
Angela, Angela, angelo mio
ma tu stasera invece di piangere
guardi il mio viso in un modo strano
come se fosse ormai lontano.
Ti prego, Angela, no, non andartene
non puoi lasciarmi quaggiù da solo
non è possibile che tutto a un tratto
io possa perderti, perdere tutto.

 Questa canzone è stata incisa da Luigi Tenco, da Gianni Morandi, da L’Aura, da Mascia Foschi e da Gino Paoli.


venerdì 2 dicembre 2011

Da Ti racconto una canzone LA CASA DI HILDE

LA CASA DI HILDE

Molti adulti conservano per anni il ricordo di un incontro d’infanzia con un cane o con un gatto… io invece ho un ricordo vivissimo della mattina in cui incontrai una capra… sia perché questo incontro avvenne dopo un pomeriggio ed una notte dense di avvenimenti e di emozioni, sia perché quel giorno cominciai ad intuire quale fosse il lavoro di mio padre, sul quale fino ad allora non avevo le idee chiare. Per combinazione qualche mese prima, a scuola, la maestra me lo aveva chiesto ed io avevo risposto quello che sentivo dire dalla mamma, cioè che papà era in giro per affari. Già, ma quali affari?
Ricordo come fosse oggi il giorno in cui mio padre, dopo aver parlato al telefono in una lingua straniera per quasi quaranta minuti, all’improvviso mi disse che mi avrebbe portato a fare una gita in Svizzera. La mamma fece una smorfia, fu sul punto di intervenire, ma non aprì bocca;  io, invece mi entusiasmai all’istante. Non ero mai stato all’estero e la cosa mi mise addosso un’eccitazione incontenibile. A volte la sera, mentre mamma e papà giocavano a carte o a dama, io giocherellavo con una vecchia radio ad onde corte ed amavo moltissimo sentire voci strane, in lingue a me sconosciute; i fruscii, i rumori di fondo rendevano più eccitante l’ascolto. Quando pensavo all’ “estero” nella mia mente vedevo posti esotici, lontani, in cui non solo la lingua, ma tutto: dal cielo agli animali, dai colori alla forma delle case assumeva un aspetto strano, diverso, misterioso.
L’indomani partimmo, subito dopo aver pranzato. Era un pomeriggio di marzo gelido e luminoso.  Lasciammo la macchina in un paesino pittoresco di cui non ricordo il nome e verso le tre del pomeriggio ci incamminammo a piedi per un sentiero coperto di aghi di pino. Non avevo mai visto la montagna così verde. Chiesi a mio padre se la Svizzera fosse ancora lontana.
“Non è lontana, ma ci andiamo domani mattina. Oggi devo vedere una mia amica; ceneremo e dormiremo da lei, poi domani all’alba andremo in Svizzera”. Non mi aspettavo una risposta del genere e confesso che le parole di mio padre mi gelarono e mi lasciarono addosso non solo un po’ di delusione, ma anche una buona dose di inquietudine.
Mio padre sembrava avere fretta, camminava a lunghi passi ed io per tenergli dietro ero costretto a correre. La sua ombra nitidissima sul verde cupo del sentiero sembrava enorme: il doppio della mia.
Papà mi indicò una montagna davanti a noi che mi parve altissima.
“Oltre quel  monte c’è il confine” mi disse. Cercai di immaginare cosa ci fosse oltre il confine, ma mio padre mi riportò alla realtà: “e su quel monte c’è la casa di Hilde”.
Continuai a camminare col cuore in gola. Che storia era mai mia questa?  C’era proprio bisogno di varcare una montagna a piedi per fare una gita? Non potevamo andarci in macchina? e perché fermarci a mangiare e a dormire da questa signora che non avevo mai sentito nominare? Mi tornarono in mente le storie di streghe che mi raccontava la nonna e qualche film dell’orrore che avevo udito raccontare in tram dai ragazzi più grandi. La salita fu comunque meno dura del previsto.
Quando bussammo alla porta della casa (una baita isolata in un prato verdissimo che a me, lo ricordo con raccapriccio, parve esattamente identica alla casetta di marzapane di Hansel e Gretel), lo confesso,  avevo paura. Ero pronto alle più orrende visioni e istintivamente mi strinsi a papà.
Hilde venne ad aprire. Era una signora sui quarant’anni, bionda, il viso rossiccio cotto dal sole, con un sorriso luminoso ed un abito bianco; una creatura ben lontana dalla strega che mi ero aspettato di incontrare.
Ci fece entrare, ci offrì un tè bollente, poi papà ed io ci sedemmo a guardare il tramonto, uno spettacolo così bello che ci tolse il fiato. Restammo in silenzio, perché –come giustamente mi disse papà- uno spettacolo del genere non andava soltanto guardato, ma anche ascoltato. Hilde si mise in disparte a suonare la cetra.
Suonava il primo movimento del concerto per chitarra ed orchestra “Concierto de Aranjuez” di Juan Rodrigo. Era la prima volta che lo ascoltavo, e provai un’emozione indescrivibile. Mi ricordava vagamente una canzone che cantava sempre la mamma, di cui cominciavo a sentire la nostalgia. Chissà perché papà non aveva portato anche lei?  Per scacciare l’incipiente magone mi concentrai sulla musica e mi chiesi se fosse davvero la stessa melodia o se fossero due arie simili.
Mi sorpresi a canticchiarla tra me movendo appena le labbra.

                                     Caro amore
                                     nei tramonti d’aprile, caro amore 
                                     quando il sole si uccide oltre le onde
                                     puoi sentir piangere e gridare
                                     anche il vento ed il mare...

Cenammo con un piatto di pizzoccheri e due fette di bitto, poi Hilde cedette a me e a papà il suo letto e si sdraiò su un divano.
Mio padre si addormentò subito, ma io non riuscivo. Guardavo dalla finestra la luna, una luna enorme, non piccola come quella che illumina il cielo di Milano; pensavo che mi sarebbe bastato allungare una mano per toccarla… poi all’improvviso cominciò a scendere la neve e ad imbiancare il prato davanti alla casa di Hilde.
Mi sentivo coinvolto in un’avventura misteriosa, in un intrigo come quelli dei film. Ebbi in quel momento la netta percezione del fatto che le streghe non esistono, sono storie inventate apposta per far paura ai bambini, ma nello stesso tempo sentii che esistono altre situazioni altrettanto inquietanti e paurose che i piccoli non conoscono. Per la prima volta mi sentivo un uomo e non un bambino di otto anni.
Ad un certo punto anch’io mi addormentai, ma venni risvegliato da colpi secchi picchiati alla porta della baita.
“Apri, Martinelli, sappiamo che sei lì dentro” gridava una voce con forte accento lombardo.
Mio padre si infilò i pantaloni e come aprì la porta si trovò un fucile puntato all’altezza del cuore. Alzò le mani e si lasciò perquisire dal doganiere.
Dalla giacca saltò fuori ben poco: documenti… qualche spicciolo… la foto di me piccolissimo, in braccio a papà e mamma in piazza san Marco a Venezia. Nient’altro.  Hilde non si era mossa. Sul divano, enigmatica, continuava a suonare la cetra, sempre lo stesso pezzo, mentre io per vincere la paura mi sforzavo di ricordare le parole.

                                     Caro amore
                                     i fiori dell’altr’anno caro amore
                                     son sfioriti e mai più rifioriranno
                                     per i giardini ad ogni inverno
                                     e più tristi son le foglie.

Il doganiere frugò anche nei pantaloni di papà, ma trovò solo il fazzoletto, poi guardò nei pochi mobili della baita senza trovare quello che gli interessava.
Prima di andarsene ci strinse la mano e si sforzò di sorridere, ma io lessi nei suoi occhi la desolazione del segugio che torna ai piedi del cacciatore senza l’agognata selvaggina.
Quando il doganiere si fu allontanato Hilde e mio padre si abbracciarono. Hilde svitò il manico della cetra e tirò fuori una manciata di diamanti che papà fece sparire in una tasca interna della giacca.
Aprì una bottiglia di Grumello e riempì un  bicchiere per sé ed uno per papà, poi, visto il mio sguardo implorante, me ne versò mezzo bicchiere.
Ormai era l’alba. Lasciammo la casa di Hilde e ci avviammo verso la dogana.
La strada dapprima era in salita, poi cominciò a scendere.
“Siamo in Svizzera” disse mio padre.
Mi guardai attorno: l’erba, i fiori, gli insetti erano identici a quelli dell’Italia. Un vecchietto che incontrammo con la gerla in spalla ci si rivolse in dialetto lombardo. Confesso che provai una fitta al cuore.
“L’estero” non era come io lo avevo immaginato e forse anche mio padre non era l’uomo che credevo di conoscere.
Una capra, curiosa, si avvicinò a noi.
Mio padre che aveva letto sul mio volto la tristezza, anche se non sapeva a cosa attribuirla, per distrarmi prese una corda e legò la capra che non oppose resistenza.
Ci incamminammo e la portammo con noi.
La casa di Hilde
(Francesco De Gregori)


L'ombra di mio padre due volte la mia,
lui camminava e io correvo,
sopra il sentiero di aghi di pino,
la montagna era verde.
Oltre quel monte il confine,
oltre il confine chissà,
oltre quel monte la casa di Hilde.
Io mi ricordo che avevo paura,
quando bussammo alla porta,
ma lei sorrise e ci disse di entrare,
era vestita di bianco.
E ci mettemmo seduti ad ascoltare il tramonto,
Hilde nel buio suonava la cetra.
E nella notte mio padre dormiva,
ma io guardavo la luna,
dalla finestra potevo toccarla,
non era più alta di me.
E il cielo sembrava più grande
ed io mi sentivo già uomo.
Quando la neve scese a coprire la casa di Hilde.
Il doganiere aveva un fucile
quando ci venne a svegliare,
disse a mio padre di alzare le mani
e gli frugò nelle tasche.
Ma non trovò proprio niente,
solo una foto ricordo.
Hilde nel buio suonava la cetra.
Il doganiere ci strinse la mano
e se ne andò desolato,
e allora Hilde aprì la sua cetra
e tirò fuori i diamanti.
E insieme bevemmo del vino
ma io solo mezzo bicchiere.
Quando fu l'alba lasciammo la casa di Hilde.
Oltre il confine,con molto dolore,
non trovai fiori diversi,
ma sulla strada incontrammo una capra
che era curiosa di noi.
Mio padre le andò più vicino
e lei si lasciò catturare,
così la legammo alla corda e venne con noi.

Questa canzone è stata incisa da Francesco De Gregori.


venerdì 25 novembre 2011

Da "Ti racconto una canzone"   LE PASSANTI


LE PASSANTI

Piove, fa freddo, sto poco bene stasera. E’ inverno, viene buio prestissimo, alle quattro sembra già notte. Sono qui in casa da solo e continuo a pensare ad alcune persone che sicuramente, tranne una, neppure sanno della mia esistenza. D’altra parte io di loro so così poco… non so neppure il nome. Ed allora per rivolgermi a loro userò nomi fittizi, uno per ogni lettera dell’alfabeto.

Cominciamo da te, Anna, che un giorno sul tram 24, con un dolce accento pugliese hai chiesto la strada per la stazione Centrale ad un signore seduto accanto a me. Lui ti ha guardato con ostilità e ti ha risposto “uei, teròna, se te cunùset minga Milan sta a ca tua!”. Tu sei impallidita e hai distolto lo sguardo da lui. Stavi per metterti a piangere.  Io dapprima ho pensato di non intervenire, altrimenti lo avrei preso a sberle, ma poi ho visto nei tuoi occhi la sofferenza e l’umiliazione e mi sono intromesso. Ti ho detto di scendere con me a Crocetta e di prendere la linea 3 (gialla). Anzi ti ho accompagnata fin giù in metropolitana, e tu non sapevi come ringraziarmi. Avevi un sorriso luminoso e quando mi hai detto “grazie” e all’improvviso mi hai abbracciato e baciato sulle guance ti splendevano gli occhi. Quanto è durato il nostro incontro? Due, tre minuti non di più. Chissà perché a volte penso che se ci fossimo frequentati ci saremmo fatti felici a vicenda…

E poi ci sei tu, Barbara, che ho visto una mattina di marzo passando per quella via del Gallaratese, di cui di proposito non ho voluto leggere il nome. Era un giorno in cui sembrava che tutto mi andasse male, venivo da un colloquio di lavoro in cui mi avevano respinto, ma anche ridicolizzato e questo non lo trovo corretto. Poche volte nella mia vita mi sono sentito triste come in quel momento. Aspettavo l’autobus ed ho sollevato gli occhi verso la casa di fronte. Ti ho vista alla finestra. Trent’anni o poco più, carina, castana. Uno sguardo da persona saggia, pieno di comunicativa. In un attimo ho pensato che se ti avessi parlato dei miei problemi mi avresti capito. Ad una persona con uno sguardo come il tuo avrei confidato volentieri le mie pene e le mie sofferenze. Tu, i gomiti appoggiati al balcone, guardavi la strada ed io speravo che i tuoi occhi si accorgessero di me, ma in casa tua è squillato un telefono. E’ stato un attimo. Sei entrata a rispondere e in quel momento è passato il mio autobus. So che non avrei dovuto prenderlo.

E tu, Chiara, che in un giorno di luglio del lontano 1966 sei  salita sul treno a Chiavari con una valigia pesantissima ed hai riso quando io ti ho aiutato a metterla sul portabagagli facendo una fatica tremenda? Eravamo io e te da soli nello scompartimento, mentre il resto del mondo era a casa a vedere la finale dei mondiali di calcio: Inghilterra-Germania. Non ho guardato neppure per un attimo dal finestrino, nonostante io ami la natura appenninica; i tuoi occhi quel pomeriggio erano il più bel paesaggio. Ti ricordo come un fiume in piena, non smettevi di parlare: la Sardegna, la casa dei tuoi genitori  a picco sul mare di Cala Gonone, la tua infanzia a Cala Mariolu tutta vostra ed ancora non invasa da “sos italianos”, le passeggiate nell’interno fin sotto il Supramonte, quella sagra di paese in cui hai ballato col bandito Mesina, latitante e ricercato da migliaia di agenti… la carta da musica… la massa frissa… la seada… il porceddu… io ti ascoltavo affascinato; quando il treno si è fermato credevo fossimo a Genova o al massimo a Ronco Scrivia ed invece eravamo già arrivati a Milano…  Ho avuto un attimo di esitazione nel salutarti. Mi è sembrato sciocco, banale chiederti il numero di telefono… ma, forse, chissà, quel numero avrebbe cambiato le nostre vite.

Invece il tuo nome, Debora lo conosco fin troppo bene, come conosco bene te, vecchia amica che per tanti anni ha condiviso con me gioie e dolori. Sapevamo tutto l’uno dell’altra, solo una cosa non ti ho mai detto: che mi ero innamorato di te. E sai perché non te l’ho mai detto? Perché ogni volta che ci incontravamo tu mi parlavi del tuo ragazzo: bello, buono, simpatico, dolce, comprensivo, atletico, vincente… ed è solo una minima parte degli aggettivi che trovavi per descrivermelo. A me è sempre parso un tipo comune, un ragazzotto crudo e un po’ montato, perso dietro alla sua moto, al calcio ed alla disco music; mi sono sempre chiesto cosa ci trovasse una ragazza fine come te in un tipo del genere,  ma non ho mai osato dirtelo, forse, chissà, la gelosia ottenebrava il mio giudizio ed io ho sempre detestato i gelosi. Ricordi che non sono venuto al tuo matrimonio e ti ho detto che stavo male? Beh era una malattia “diplomatica”, non volevo vederti salire all’altare con lui, ma in fondo ti ho detto la verità. Quel giorno stavo  male davvero. Poi ho scelto di sparire dalla tua vita e per anni non mi sono fatto vivo. Ma l’altra sera che ci siamo incontrati in centro per caso e ti ho offerto un caffè… eh Debora, davvero non dovevi dirmi quello che mi hai detto, tutto il male che ti ha fatto e che ancora ti sta facendo, tutti i suoi difetti, le sue magagne, le sue meschinità. Mi ha sconvolto la definizione che ne hai dato: “un uomo ormai troppo cambiato”. Non avresti dovuto permettermi di sbirciare nel tuo presente squallido e  nel tuo avvenire disperato. E’ stata una pazzia. Una pazzia inutile. Io ho detto “mi dispiace”, ma dentro me ho pensato “lo sapevo”.

Stasera penso a voi, care immagini che per un attimo avete incrociato la mia vita, ma già so che domani vi avrò dimenticate. Basta un minimo di felicità e certe figure sfumano nell’oblio. Ma non sono poi così sicuro di questo. Può darsi che un giorno mi accorgerò di aver fallito nella vita e in questo caso… le persone intraviste per un attimo diventeranno le uniche compagne della mia esistenza. Conosco bene quelle sere di stanchezza e solitudine, sere grigie come questa, in cui i fantasmi del passato si  insinuano nella nostra anima, trasformandosi in persone che ci avrebbero capito, cuori che ci avrebbero atteso, occhi  in cui ci saremmo persi. Sono questi i momenti in cui si piangono le labbra assenti e la compagnia di tutte le belle passanti che non siamo riusciti a trattenere. 

 
Les passantes
(Antoine Pol mis en musique par Georges Brassens) 
 
  Je veux dédier ce poème 
  A toutes les femmes qu'on aime 
  Pendant quelques instants secrets, 
  A celles qu'on connaît à peine, 
  Qu'un destin différent entraîne 
  Et qu'on ne retrouve jamais. 
 
  A celle qu'on voit apparaître 
  Une seconde, à sa fenêtre 
  Et qui, preste, s'évanouit, 
  Mais dont la svelte silhouette 
  Est si gracieuse et fluette 
  Qu'on en demeure épanoui.
 
  A la compagne de voyage 
  Dont les yeux, charmant paysage 
  Font paraître court le chemin; 
  Qu'on est seul peut-être à comprendre, 
  Et qu'on laisse pourtant descendre 
  Sans avoir effleuré la main. 
 
  A celles qui sont déjà prises 
  Et qui vivant des heures grises 
  Près d'un être trop différent, 
  Vous ont, inutile folie 
  Laissé voir la mélancolie 
  D'un avenir désespérant. 
 
  Chères images aperçues 
  Espérances d'un jour déçues 
  Vous serez dans l'oubli demain; 
  Pour peu que le bonheur survienne, 
  Il est rare qu'on se souvienne 
  Des épisodes du chemin 
 
  Mais si l'on a manqué sa vie 
  On songe avec un peu d'envie 
  A tous ces bonheurs entrevus, 
  Aux baisers qu'on n'osa pas prendre, 
  Aux coeurs qui doivent vous attendre, 
  Aux yeux qu'on n'a jamais revus. 
 
  Alors, aux soirs de lassitude, 
  Tout en peuplant sa solitude 
  Des fantômes du souvenir, 
  On pleure les lèvres absentes 
  De toutes ces belles passantes 
  Que l'on n'a pas su retenir. 
 
 
Le passanti
(traduzione di Fabrizio de André)
 
 
Io dedico questa canzone

ad ogni donna pensata come amore

in un attimo di libertà

a quella conosciuta appena

non c'era tempo e valeva la pena

di perderci un secolo in più.



A quella quasi da immaginare

tanto di fretta l'hai vista passare

dal balcone a un segreto più in là

e ti piace ricordarne il sorriso

che non ti ha fatto e che tu le hai deciso

in un vuoto di felicità.



Alla compagna di viaggio

i suoi occhi il più bel paesaggio

fan sembrare più corto il cammino

e magari sei l'unico a capirla

e la fai scendere senza seguirla

senza averle sfiorato la mano.



A quelle che sono già prese

e che vivendo delle ore deluse

con un uomo ormai troppo cambiato

ti hanno lasciato, inutile pazzia,

vedere il fondo della malinconia

di un avvenire disperato.



Immagini care per qualche istante

sarete presto una folla distante

scavalcate da un ricordo più vicino

per poco che la felicità ritorni

è molto raro che ci si ricordi

degli episodi del cammino.



Ma se la vita smette di aiutarti

è più difficile dimenticarti

di quelle felicità intraviste

dei baci che non si è osato dare

delle occasioni lasciate ad aspettare

degli occhi mai più rivisti.



Allora nei momenti di solitudine

quando il rimpianto diventa abitudine,

una maniera di viversi insieme,

si piangono le labbra assenti

di tutte le belle passanti

che non siamo riusciti a trattenere.

Questa canzone è stata incisa in francese da Georges Brassens e in italiano da Fabrizio de André.