venerdì 6 luglio 2012



ore 16.30


Sembra il primo giorno

Le telefonai e le proposi un appuntamento per il pomeriggio. Arrivò puntualissima, a me sembrò persino che corresse, ma forse, ripensandoci col senno di poi, e sono più di trent’anni che ogni tanto ripenso a quel pomeriggio, momento per momento, è una cosa che ci volli vedere io. Nonostante fosse ottobre c’erano un’aria frizzantina ed un cielo luminoso di primavera.
“Ciao amore, sembra il primo giorno, ti ricordi? Lo stesso cielo azzurro, la stessa brezza, e poi non eravamo molto lontani di qui”.
Camilla annuì. Ci abbracciammo e ci scambiammo un bacio leggero, senza passione né coinvolgimento, da parte sua, intendo. Cominciammo a camminare in silenzio; le strade della vecchia Roma erano deserte. Ci inoltrammo in un quartiere popolare in cui sembrava che il tempo si fosse fermato. Incontravamo sul nostro cammino fresche osterie col pergolato da cui uscivano frammenti di parole “ma che ti dormi? dovevi giocare il cavallo…”, parolacce e bestemmie di ogni tipo, ordini gridati a voce roca tra cui mi fece sorridere il classico “pòrtace ‘n altro litro”. In un altro momento mi sarebbe piaciuto sentire il rumore delle carte sul tavolo, il gorgoglio del vino nei bicchieri, il rumore del fiume, ma c’era qualcosa di strano, stavo per dire di inquietante. Sentivo il respiro di Camilla e mi sembrava diverso dal solito; nel contempo avevo paura che si sentisse il battito del mio cuore… Tra noi un silenzio pesante. Io non osavo parlare per evitare che capisse che l’avevo vista la mattina, ma lei…
“Camilla, lo sai come si chiama il ministro dei trasporti cinese?”
“No”
“Fur Gon Cin”
Sorriso tirato.
“E la puttana greca?”
“Dimmi”
“Mika Teladogratis”.
“Carina”.
“ E il giudice italiano più severo?”
“Questa la sapevo, ma non me la ricordo”.
“Massimo Della Pena.
“Ah, sì”.
Smisi perché mi accorsi che quelle battute suonavano false, creavano disagio a lei, ma anche a me. Camminammo in silenzio per altri dieci minuti. Ogni tanto io la abbracciavo o le prendevo la mano… non rifiutava il contatto, questo no… per un po’ passeggiavamo così, poi lei tossiva, o si metteva a posto i capelli, o si grattava il naso… e alla fine ogni motivo era buono per staccarsi da me.
Fu Camilla a rompere il silenzio.
“Sai una cosa, Claudio? Noi due abbiamo riso, scherzato, passeggiato, ci siamo baciati, abbiamo fatto l’amore…”
“Ed è stato bellissimo” la interruppi.
“Ed è stato bellissimo –ammise con un sorriso malinconico-, ma non abbiamo mai parlato. Non ci siamo mai confrontati su niente”.
“Camilla non ti capisco, non so cosa intendi dire… comunque non so come sia potuto capitare… in ogni caso abbiamo costruito qualcosa”
“Forse, Claudio, ma… -restò pensierosa un momento poi continuò a fatica, quasi con le lacrime agli occhi-  ma se abbiamo costruito qualcosa l’abbiamo perso”.
Nella mia mente era come se un proiettore diffondesse il film del nostro primo incontro: “Scusa, hai una sigaretta? io le mie le ho finite”. Era un’adolescente bionda, esile, dai grandi occhi blu. Come molte ragazze di quel tempo non portava un filo di trucco. Vestiva in maniera semplice, una Lacoste  verde attillatissima ed una gonna bianca. La guardai divertito, poi estrassi il pacchetto delle Muratti. Ce n’era rimasta una sola, ma pazienza. Gliela porsi. “Scusa la faccia di tolla -mi disse con un improvviso senso di disagio accendendosi la sigaretta ed aspirando con voluttà- ma ne avevo una voglia pazza. A proposito, io mi chiamo Camilla. Perché non ti siedi un momento?”.
“Piacere, Claudio” sussurrai. Lo specchio del bar mi rimandò la mia immagine: avevo un’aria sconvolta. “Quando capitano questi incontri sarebbe meglio essere ben pettinati” pensai con un soldo di ironia e due di rammarico…. Com’era lontano il casino di Roma per me che stavo vivendo una mattinata stupenda. Quanto a lei… non ci giurerei, ma avevo la netta sensazione di piacerle.
Ora invece eravamo sul punto di finire tutto ed io non riuscivo a capire la ragione. Chi lo avrebbe detto un mese fa? Due mesi fa? Tre mesi fa?
Feci per baciarla, ma Camilla mi fermò.
“No, Claudio, meglio di no”.
Mi sentivo un cretino, lì, con lei, fermo in mezzo ad una strada.
“Camilla non è vero –le dissi –non può essere vero che la nostra storia finisce”.
“Claudio, ti prego, non complicare le cose… tanto… non serve a niente”.
Avrei avuto voglia di urlare, di picchiare pugni contro il muro, di pregarla di rimanere, ma mi resi conto che sarebbe stato del tutto inutile.
Mi bloccai e le porsi la mano con un gesto da adulto. Come mi sarebbe successo spesso nei momenti drammatici della mia vita cercavo rifugio in una canzone. Come faceva quella canzone che cantava sempre mia zia quando ero bambino? Cercai di ritrovare le parole nella memoria, perché sentivo vagamente che chi l’autore le aveva scritte per me in quel momento.

                                   “Abbiamo sfidato l’amore quasi per gioco
                                           ed ora fingiam di lasciarci soltanto per poco (…)
                                           con una stretta di mano
                                           da buoni amici sinceri
                                           ci sorridiamo per dir “arrivederci”.

Se ne andò col suo passo leggero, solo leggermente più curvo del solito. Fui sul punto di richiamarla indietro, ma poi mi dissi  “non serve a niente”.
Da quel giorno sono passati più di sei lustri, tante gioie e tanti dolori hanno cambiato la mia vita, ma ogni tanto mi accorgo che sto pensando a questo piccolo grande amore. Recentemente ne ho parlato per email al Gatto e lui per tutta risposta mi ha mandato una frase di uno scrittore francese che mi sembra scritta per questi miei sentimenti: “Tante persone ho visto morire nella mia vita, ma la morte per cui più ho sofferto è quella del ragazzo che sono stato”.
Roma è grande, ma è pur sempre una città, mica un continente; ci sono luoghi in cui prima o poi si va tutti e tutti ci si ritrova: piazza di Spagna, l’Olimpico, stazione Termini, Villa Borghese, il Pincio, il Circo Massimo. Beh… non mi è mai più capitato di incontrare Camilla.



venerdì 29 giugno 2012



 ore 11.30

Quanto ti voglio


Cominciai a correre come un disperato, senza ragionare, senza riflettere su cosa stessi facendo; mi sembrava di avere dentro la mia testa i Pink Floyd che suonavano a manetta “One of these days”; avevo freddo e caldo nello stesso tempo, sentivo una contrazione nervosa in fondo allo stomaco, avevo voglia di piangere, di urlare, di vomitare. Attraversai con un balzo una strada costringendo una Fulvia Coupé ad una brusca frenata.
“A coso....ma all'asilo nun t'hanno detto che prima de traversa 'a strada se guarda”? mi disse un tipo non dissimile dalla nuova fiamma di Camilla.
“Ahò, ma chi stai a di’ –gli risposi- parli proprio tu che hai fatto arriva' a patente coi punti daa Mira Lanza “. A pischello, ringrazia qua' diisa e le stellette che porti se nun te spacco qua' faccia da cazzo. Era mejo che te buttavo sotto ‘nvece de frenà.
” E ripartì sgommando, mentre l’autoradio a tutto volume diffondeva “Hey Joe” di Jimi Hendrix.
Ci rimasi male. “In effetti –pensai- sarebbe stato meglio davvero, almeno finiva tutto…”
Avevo perso l’orientamento, dove mi trovavo? Roma che conoscevo come le mie tasche mi pareva una metropoli sconosciuta… meno male che ad un certo punto vidi la chiesa del Gesù… ecco, basta passare il bar e lì dietro c’era casa mia. Sperai che i miei genitori fossero a messa, per evitare di incontrarli e fiondarmi a letto a leccarmi le ferite… bella sorpresa davvero, e adesso chissà che scusa troverà –continuavo a pensare- ma che cosa è cambiato rispetto ad un mese fa, ci amavamo… dicevamo che era amore.. ecco, mi piacerebbe sapere il mio amore dove lo ha buttato… figura di merda ecco che cosa ho fatto… roba da non farsi vedere più al bar, a Roma.. roba da andare nella legione straniera… nel Vietnam… nel Biafra… ma no io non riuscirei a vivere neanche un istante senza di lei, senza quegli occhi azzurri che mi sono entrati nell’anima… sempre però che lei sia ancora quella che ho conosciuto io, quella della prima volta in quel bar del cacchio…quella del primo bacio sul lungotevere, quella del mare… io glielo devo dire:  Camilla, ascolta io non posso vivere senza di te, senza i tuoi grandi occhi chiari, senza… porca zozza, guarda chi c’è, questa proprio non ci voleva: mia mamma sulla porta di casa, sorriso a sessantaquattro denti, mani che tremano, lacrimuccia in agguato”
“Ciao soldato!, bello di mamma fatti vedere, Luigi vieni c’è Claudio, Luigi metti in fresco una bottiglia di Frascati, ma come stai bene in divisa, Dio come sei bello, Luigi vieni ti dico, fatti vedere cucciolo, passerotto della tua mamma, hai fame vero?, ti preparo i rigatoni col ragù, che cce vò, li fa in un attimo la mamma per il suo soldato che ha tanta fame… e di secondo scaldiamo un pezzo di abbacchio, l’ho fatto ieri, basta metterlo in forno”.
Non la salutai, non le dissi niente, la scostai con un gesto brusco ed entrai in casa.
“Claudio, amore che succede? Hai fame? C’è qualche problema, dillo alla tua mamma, sarai mica scappato dalla caserma…”
“Mamma non ho niente, ti prego, lasciami stare, non ho bisogno di niente, non rompere”.
“Dio, ma come sei cambiato, ma cosa ti è successo, cosa ti hanno fatto in quella dannata caserma? Luigi vieni che Claudio sta male. ”
“Mamma ti prego non rompere i coglioni, non voglio niente, non ho bisogno di niente e di nessuno”.
Entrai in camera mia e sorrisi amaramente di quell’ultima mia frase: “non ho bisogno di niente e di nessuno”.
Palle!!! Avevo bisogno di Camilla, la desideravo con tutto me stesso, ma chi se ne frega se era stata con un altro, anche se ci era andata a letto, sai che roba, mica siamo nel medioevo, sono cose passeggere, il tempo aggiusta tutto…nello stesso tempo ero incazzatissimo, ma come si era permessa quella… io la odio Camilla –pensai- la odio con tutto il cuore, ha fatto una carognata tremenda, ma io… come si fa ad odiare una ragazza così bella… ma anche lei, però, a mettersi con un altro, porca troia, almeno una volta le donne avevano più dignità, quando si innamoravano di uno che non era il loro promesso dicevano “esco dalla tua vita” e scomparivano come quella… come cazzo si chiama… oppure si buttavano sotto il treno come Anna Karenina, ecco cosa dovrebbe fare Camilla, sparire per sempre o ammazzarsi e perché non lo fa?” No Camilla non deve sparire, non deve ammazzarsi, Camilla deve tornare con me. La chiamo”.


venerdì 22 giugno 2012

da QUESTO PICCOLO GRANDE AMORE: PORTA PORTESE


Capitolo 6


Ottobre

Domenica  ore 9

Porta Portese

La prima licenza arrivò inaspettata una quarantina di giorni dopo il mio arrivo in caserma. Approfittai di un passaggio offertomi dal padre di un commilitone ed una domenica mattina verso le otto e trenta arrivai a Roma. Mi accorsi con mio grande disappunto che in questo mese ero dimagrito moltissimo: non mangiavo quasi nulla, ero sempre teso e nervoso… avevo ripreso a fumare come un turco… avrò perso sette o otto chili, ma non era quello il problema: mi resi conto immediatamente che tutti i miei pantaloni borghesi sarebbero stati esageratamente larghi. Presentarmi  a Camilla in divisa manco a pensarci… i negozi erano tutti chiusi… non so come mi venne la malaugurata idea di farmi lasciare al mercatino dell’usato di Porta Portese. Nonostante fosse mattina presto il mercato era già sveglio, le bancarelle erano strapiene di roba, la gente cominciava ad affollarsi. Provai una sensazione strana, un misto di tenerezza e nostalgia ripensando alla mia infanzia, a certe mattine di qualche anno fa quando a Porta Portese ci venivo con mio padre… e questo ricordo si fece più vivo quando casualmente  passai davanti al banco della signora Lella, che vendeva ritratti e foto di Papa Giovanni XXIII di tutte le forme e dimensioni. Papa Giovanni… mi sembrava ieri la sera che aveva fatto quel discorso in TV che tanto mi aveva colpito “stasera tornando a casa troverete i vostri bambini… date loro una carezza e dite questa è la carezza del papa”… quelle parole mi avevano emozionato… quando mai un papa, o comunque una persona importante di quelle che parlano dallo schermo della televisione si era occupato dei bambini?…avevo dieci anni quella sera… ed ora ne avevo il doppio… forse per la prima volta nella mia vita elaborai nella mia mente quel concetto tanto banale e scontato quanto vero: “il tempo vola”. Salutai la signora Lella. Che tipa! A me a scuola la storia non è mai piaciuta, l’ho sempre odiata, nomi, date, battaglie, sai quanto me ne fotteva a me di quanti erano gli efori di Sparta prima della riforma di Licurgo e quanti dopo… ma quando la signora Lella cominciava a parlare delle cose che aveva visto lei nella sua lunga vita: Vittorio Emanuele III ed Elena del Montenegro sottobraccio che parevano l’articolo “il”… Hitler e Mussolini sui Fori Imperiali… il papa in lacrime a San Lorenzo dopo il bombardamento… il rastrellamento nel ghetto… il comizio di Togliatti a San Giovanni in Laterano due giorni prima delle elezioni del ’48… e poi Totò, la Magnani, Fellini, Sordi, Fabrizi…ti affascinava e non saresti andato più via. Sulle sue labbra la storia e la cronaca diventavano vita vissuta. Inoltre c’era sempre qualcuno che si divertiva a stuzzicarla:
“A Lella, che cell'avete voi n'omo?
“Ma lassame perde, faccia da trasteverino.”
“A Lella ve piaciono i capelloni?”
“E comme no… mo’ pure l’ommini se travesteno da donna… capelli lunghi, collane… camicie a fiori, ma annate a scònderve”
“A Lella, ma voi per chi votate?”
“Ma nun me parlate de politica, che so’ tutti fii de mignotta, tutti dar primo all’urtimo… Venissero qui a lavorà come li cristiani, capirebbero tante cose”. Poi si interrompeva bruscamente e cominciava a gridare con la sua voce stentorea nonostante l’età: “ma ndo a trovate roba mejo de Porta Portese? Manco a Parigi se trova roba bella come da noi”. Avanzai a fatica sgomitando tra la gente che andava in giro un po’ come le oche, mi fermai un attimo davanti ad un banco di roba chiaramente rubata… c’erano pezzi di macchina, spade antiche e moderne, quadri di tutte le fatture (con nettissima prevalenza di paesaggi montani e lacustri in doppia versione estiva ed invernale), continuai a camminare guardando la merce esposta. Tra Radiomarelli d’epoca, dischi a settantotto giri, cesti di vimini e ninnoli che cambiavano di colore a seconda del tempo, c’era in bella vista la foto di una biondina con le tette in fuori che una didascalia pretendeva essere Brigitte Bardot, ma bastava un’occhiata per capire che se quella era la Bardot io ero un tirannosauro.
Figurine Liebig, pezzi di ricambio originali Guzzi, Ducati e Gilera,  bambole di pezza e di ceramica, ferri da stiro col contenitore per le braci, macinacaffè in legno, libri per ragazzi della Scala d’Oro, dell’Aristea e della Salani, manuali della Hoepli e Bignamini usati da generazioni di ginnasiali, l’Enciclopedia Italiana quasi completa, bigiotteria da due soldi, legumi secchi e spartiti d’opera, poi finalmente una bancarella di abiti usati.
Sollevai un paio di jeans sporchi e sdruciti (oggi sarebbero all’ultima moda, ma allora nessuno avrebbe avuto il coraggio di girare con pantaloni bucati, scuciti o anche solo lisi).
“Settemila” disse il ragazzo dietro il banco.
“Settemila lire sta ciofeca? Ma lo vedi quanto so’ sporchi e bucati?” dissi io.
“A lorbrùmmel, ma ndo te credi de esse: in una butic de via Veneto o al mercatino dell’usato? e poi… sei capace di leggere o no?”
“Certo che so leggere: “CALZONI USATI”, sì, ma io intendevo usati da un cristiano,  porca zozza, questi li ha usati un trucido, un coatto, un…”
Non terminai la frase perché mi parve di udire in lontananza l’inconfondibile risata argentina di Camilla.
Mi voltai di scatto. Avevo il sole negli occhi, ma in controluce vedevo avanzare Camilla e suo fratello Lele. “Che teneri –pensai- fratello e sorella mano nella mano, mai vista una roba del genere, vabbè che sono figlio unico…”. Ma mano a mano che si avvicinavano realizzai che lei sì era Camilla, ma l’altro in comune con Lele aveva solo il metro e ottantasette di altezza: Lele sto cazzo!!!: si trattava di un ragazzone sui ventidue – ventitré anni:  moro, atletico, abbronzato; maglioncino di cachemire color salmone, pantaloni di velluto, calzini inglesi, mocassini di camoscio…
“Hai capito la stronza? –pensai-  altro che fratello… io sto a fare il soldato e lei si è andata a mettere con un pariolino… e che bel ragazzo oltretutto… e chissà da quanto lo conosce… pollo io che ci sono cascato”.
Istintivamente mi nascosi dietro il camper che fungeva da punto di ristoro e li vidi passare senza che si accorgessero di me, poi me ne andai di corsa dalla parte opposta.
Mi parve di sentire la voce del ragazzo che mi urlava dietro  “a regà, ma allora sti carzoni li voj o nun li voj?” ma non ne sono certo.
Da un vecchio disco a settantotto giri mi raggiunse invece, e di questo ne sono certissimo la voce di Claudio Villa

                                    “Fiore de sale…
                                      l’amore fa penà ma nun se more…
                                     d’amore nun se more, ma se sta male”.





venerdì 15 giugno 2012


Capitolo 5


Settembre


Questo piccolo grande amore


La prima sera in caserma fu atroce. Mi guardavo attorno: tutto era grigio, sporco, squallido, maleodorante; vedevo facce tese, stranite, incattivite, dovunque porgessi l’orecchio sentivo ordini urlati con voce antipatica, scherzi cattivi, bestemmie.
 Pensavo (e mi si chiudeva lo stomaco) che per un anno avrei dovuto vivere qui dentro, mangiare qui dentro, dormire qui dentro… e Camilla era lontana.
Sedevo su una panca con la testa bassa e gli occhi gonfi. Avevo voglia di piangere, ma temevo gli sberleffi dei “nonni”.
Non avevo fame, non avevo sonno, le tempie mi martellavano, mi buttai sulla branda ed appena suonò il silenzio mi sforzai di dormire, ma invano. Mille pensieri mi ronzavano nel cervello. C’era qualcosa che non quadrava nel rapporto tra me e Camilla, ma quel “qualcosa” mi sfuggiva.
Cercavo di capire il suo atteggiamento, davvero sconcertante ed allora riandavo agli ultimi tempi, a quella bellissima vacanza al mare a Marina di Camerota e ne analizzavo ogni istante, fotogramma per fotogramma, per cercare di scoprire qualche indizio che mi aiutasse a venire a capo del mistero.
La rivedevo con la sua maglietta bianca con disegnato al centro un grande gabbiano azzurro… tre taglie in meno della sua, aderentissima quindi, che lei portava senza reggiseno, poco o nulla lasciando alla  mia immaginazione… la sua aria acerba quasi da preadolescente, ma guai a dirglielo, era un aspetto di sé che non accettava e pensare che a me piaceva da matti…, i baci in spiaggia, la voglia e la paura di fare l’amore (all’epoca in Italia la pillola ancora non c’era e comunque Camilla aveva solo sedici anni…) il nostro sporadico dirci “ti amo”. Ecco, comincio ad intuire qualcosa… forse c’entra qualcosa con i miei “ti amo”… forse io non ero molto convincente quando glielo dicevo, a lei piaceva sentirselo dire, ed infatti mi abbracciava forte, ma ora che ci penso (come mai non me ne sono accorto allora?)mi guardava con aria sospettosa… beh forse avrei dovuto essere più rassicurante, ma d’altra parte non ero convinto pienamente nemmeno io di essere innamorato… l’amore mi faceva paura…eppure quella sera in quella branda scomoda e traballante Camilla mi mancava, capivo di aver trovato… il grande amore… pensavo… beh non esageriamo, mi dicevo, Claudio, hai solo vent’anni… è un po’ assurdo parlare di grande amore…beh diciamo un piccolo grande amore. E Camilla mi mancava al punto che stavo male. Mi mancava il suo modo buffo di camminare (l’avrei riconosciuta anche a distanza per quel suo ciondolare un po’ scomposto…), mi mancavano le sue labbra sempre salate anche nel momento del bacio… mi mancava il suo intercalare… “ma che frana che sei Claudio” (anche se neppure per un istante ho mai dubitato che avesse questo giudizio di me), mi mancavano le corse nelle notti estive, le stelle cadenti di san Lorenzo osservate assieme mano nella mano sulla terrazza del camping (chissà che desiderio avrà espresso quella notte, mica ha voluto dirmelo…), mi mancavano i giochi da spiaggia, le corse, le carezze sempre più audaci, le canzoni stonate che cantavamo a squarciagola… All’improvviso però un pensiero mi paralizzò la mente  ed il respiro e mi colpì brutalmente come una sassata in pieno volto.  Una sera, in uno di questi momenti che stavo rievocando con dolce nostalgia, lei si era improvvisamente irrigidita e mi aveva chiesto con una voce fattasi improvvisamente seria, con un’espressione del volto divenuta quasi per sortilegio adulta: “Claudio, ma tu mi ami davvero?”
“Camilla… sì… credo di sì, ma non sono sicuro, siamo giovani, Camilla, molto giovani, ti voglio bene come ci si vuol bene alla nostra età”.
Era rimasta in silenzio a guardare la luna, a far saltare i sassi nell’acqua, a farsi carezzare i suoi lunghi capelli biondi dalla brezza marina… il suo viso però esprimeva una sofferenza che non avrei mai immaginato.
“Che c’è, Camilla” le avevo chiesto.
“Niente, Claudio, sono un po’ stanca, io torno in bungalow”.
Ero arrivato al cuore del problema, ma c’ero arrivato con un mese di ritardo. All’improvviso la branda, la stanza, la caserma mi parvero soffocanti. Mi mancava il respiro, stavo male, male davvero. Scoppiai a piangere senza ritegno e so solo io quanto piansi quella notte. “Camilla mi manchi” –singhiozzavo- mi manca da morire questo piccolo grande amore”. Ah se solo potessi tornare indietro, mi comporterei diversamente, ora sì che saprei cosa dire, cosa fare… ma non tutto è perduto. Adesso che ho capito dove ho sbagliato il problema è per metà risolto. “Ti amo, Camilla -sussurrai senza sentirmi ridicolo-  lascia che mi diano la prima licenza e vedrai che cambia tutto”.



venerdì 8 giugno 2012



                                                             Cartolina rosa

Tornai a Roma col magone. Da quella stupenda notte d’amore a porto Infreschi era passato solo un mese. Chiamai Camilla ed uscimmo a passeggiare  per le strade di Roma. Non mi sembrava la Camilla dei tempi passati, ma attribuii questa differenza alla tristezza per la mia imminente partenza. Però mi stupì, e, lo confesso, mi irritò, quando disse che non mi avrebbe accompagnato alla stazione.
“Ma stai scherzando? Perché non ci vieni?”
“Mah… così… ci saranno tutti i tuoi parenti… gli amici… tutta gente che non conosco… sarei a disagio.”
“No, dài, Camilla, non puoi mancare in un momento del genere”.
“A Clà, i tuoi non li conosco, i tuoi amici non mi cagano, o peggio, mi odiano… sembra che se non esci più con loro sia colpa mia…”
“Camilla, ci tengo veramente…”
E infatti la mattina in cui partii per il servizio militare in stazione ci venne, ma si tenne in disparte; non si unì al chiassoso gruppo di parenti ed amici che mi salutavano… più io cercavo di traghettarla nel gruppo, più lei se ne tirava fuori… ora doveva fare una telefonata… ora doveva andare in bagno… ed ogni volta si rimetteva in un angolo. Aldo, Kiko, Gigi cercavano di tenermi allegro, mia mamma non riusciva nemmeno a parlare… io ogni tanto mi avvicinavo a Camilla che fissava il vuoto con aria spaesata e cercavo di farla sorridere. Era a disagio… e mi metteva a disagio. “Dài Camilla, mica sto via vent’anni e mica vado in guerra… tra un po’ torno in licenza”. L’altoparlante annunciò che al binario 12 era in partenza il direttissimo ecc. ecc… Gli amici mi accompagnarono al vagone intonando “Claudio in bici… Claudio frena… Claudio Claudio è militar”… tutti mi abbracciarono e mi baciarono. Camilla era rimasta indietro, da sola. Mi staccai dal gruppo e mi avvicinai a lei, cercando di farla sorridere.
“Camilla… sai come si chiama la guardia forestale russa?”
“No”
“Ivan Periboski”.
Rimase impassibile.
“E la cuoca russa”
“Che ne so, Claudio”
“La cuoca russa si chiama Galina Kocimilova”.
Negli occhi di Camilla passò un lampo d’insofferenza. Lei stava male, certo, ma cosa pretendeva? stavo male anch’io.
L’abbracciai e posai le labbra chiuse sulle sue. Mi scostò delicatamente, ma con fermezza; dai suoi occhi scese una lacrima e finalmente mi rivolse la parola.
Dài, Claudio che perdi il treno”.